Palazzina LAF, la recensione del film di Michele Riondino

Palazzina LAF

A vedere Caterino Lamanna (Michele Riondino), a vederlo guardare i rantoli dell’ultima pecora della masseria di famiglia caduta in disgrazia per la vicinanza al più grande stabilimento siderurgico d’Europa, si capisce quanto in quella morte, simbolicamente messa in scena, sia condensato tutto il dramma provocato dall’Ilva. È lo scontro tra il diritto alla salute e il diritto al lavoro. Ma in quegli occhi che si stanno spegnendo, Caterino vi si specchia anche. Vorrebbe essere quell’animale che pensa alla sua sola sopravvivenza e dorme sonni tranquilli, ma non lo è, e il suo cervello, nella notte, lo rielabora e lo
sintetizza in un’immagine molto chiara. Una statua con le sue sembianze che, di fianco a quella del Cristo portata in processione per la Settimana Santa a Taranto, si protende per baciarla. Caterino è Giuda, non un animale.

L’attore tarantino Michele Riondino esordisce alla regia con Palazzina LAF, un film che pone l’attenzione su un singolo – ma esemplare – caso giudiziario che ha riguardato l’Ilva di Taranto. Si tratta del primo caso di mobbing in Italia, un evento che ha fatto scuola nella giurisprudenza del lavoro. Sono gli anni ’90 quando 79 lavoratori altamente qualificati vengono costretti a passare intere giornate in quello che loro stessi hanno definito in tribunale “una specie di manicomio”. La Palazzina LAF del titolo non è altro, infatti, che un “reparto lager” dell’impianto, una struttura fatiscente e inutilizzata di fianco al Laminatoio A Freddo nella quale i lavoratori che non hanno voluto sottostare alla “ristrutturazione”, imposta dalla nuova gestione dell’azienda, sono stati relegati e costretti a trascorrere le loro intere giornate di lavoro senza far nulla. Una perversa strategia psicologica volta a spingere i lavoratori, tendenzialmente quelli più sindacalizzati, verso due sole vie d’uscita: le dimissioni o il ben più pericoloso demansionamento.

Ma che ruolo gioca in questa partita un uomo semplice e rude come Caterino, uno dei tanti operai che lavora alle cokerie? E soprattutto perché si sogna nei panni di Giuda? Il ruolo di Caterino è quello del pedone, della spia mandata in avanscoperta. Avvicinato da Giancarlo Basile (Elio Germano), un dispotico dirigente aziendale, farà da infiltrato riferendo al superiore non solo informazioni riguardanti i suoi colleghi, ma anche il sindacato. Si farà strumento fondamentale per permettere all’azienda di essere sempre un passo avanti rispetto ai lavoratori e continuare a perpetrare soprusi. Neanche in seguito al trasferimento nella palazzina Caterino riuscirà ad ammettere a se stesso di essere un delatore. Un personaggio per il quale non è prevista né ammissione di colpevolezza tanto meno un riscatto morale.

Palazzina LAF è un progetto che vede Riondino coinvolto non solo da un punto di vista personale e familiare (suo padre è un ex operaio dell’Ilva), ma anche impegnato nella scrittura della sceneggiatura insieme a Maurizio Braucci e lo scrittore di Fumo sulla città, Alessandro Leogrande, scomparso prematuramente. Lo script prende le mosse dal libro di Leogrande, ma si basa soprattutto su materiali d’archivio, atti processuali e testimonianze reali di coloro che vissero in prima persona i fatti narrati. Siamo di fronte a un film che dichiaratamente vuole essere “una sorta di affresco sociale” e ci riesce. Un film che tiene ben presente pietre miliari della cinematografia italiana di impegno civile, come La classe operaia va in paradiso (Elio Petri, 1971) e Mimì metallurgico ferito nell’onore (Lina Wertmüller, 1972), riuscendo a non risultare né stucchevole né esageratamente documentaristico. Un esordio brillante quindi, nonché una possibilità per il nostro cinema nazionale di portare all’attenzione di tutti una storia che non dovrebbe essere dimenticata e che, anzi, dovrebbe far luce su una situazione tutt’oggi allarmante.

Matteo Bertassi