Beetlejuice Beetlejuice di Tim Burton, la recensione

Beetlejuice Beetlejuice

Sono trascorsi 36 anni da Beetlejuice – Spirito porcello (1988), il lungometraggio di Tim Burton che insieme a Batman (1989) e a Edward mani di forbice (1990) ha contribuito a lanciare la carriera del regista statunitense, e il sequel tanto atteso è finalmente arrivato. Presentato in apertura dell’81esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Beetlejuice Beetlejuice recupera l’essenza del primo film e la riconduce ai giorni nostri, senza per questo tradire lo spirito dell’opera originale. Ritorna gran parte del cast storico (Michael Keaton, Winona Ryder, Catherine O’Hara), il quale si affianca ad un ensemble di nuovi personaggi che contribuiscono a fornire al sequel un suo carattere e una sua personalità, scavando quindi nella nostalgia ma ambendo anche alla produzione di qualcosa di nuovo.

Punto di partenza di Beetlejuice Beetlejuice è una tragedia – la morte di Charles Deetz, Jeffrey Jones nel primo film – che spinge la famiglia Deetz a tornare nella loro casa di Winter River, in Connecticut, per commemorarlo. Qui, la giovane Astrid (Jenna Ortega) scopre in soffitta il modellino della città realizzato dal personaggio di Alec Baldwin nel capitolo precedente, memento del passato attraverso il quale, presto, Beetlejuice riemergerà per infestare il reame dei vivi. Tuttavia, l’irriverente e maligno “bioesorcista” mutaforma interpretato da Michael Keaton sarà solamente uno dei problemi che i protagonisti del film dovranno affrontare. La succhia-anime Delores (Monica Bellucci), ad esempio, si dimostrerà essere una minaccia molto più pericolosa.

Beetlejuice Beetlejuice si muove dalla comicità al dramma (seppur molto leggero), dal sapore dell’avventura al gusto per quel macabro gotico tipicamente burtoniano. Il ricorso agli effetti speciali realizzati direttamente sul set – l’uso del digitale è al minimo – attribuisce al film un’atmosfera artigianale d’altri tempi (il merito è soprattutto di Neal Scanlan, esperto in stop motion e animatronics), in quello che è un vero e proprio ritorno a casa che coinvolge sia la famiglia Deetz sia lo stesso spettatore. In questo percorso, è soprattutto la figura di Lydia, prima ancora di Beetlejuice, a fungere da ponte essenziale tra il passato e il presente.

Nel film – che, lo ricordiamo, è sceneggiato dagli autori della serie Netflix Mercoledì, Alfred Gough e Miles Millar – Burton ci mostra come Lydia sia ora una conduttrice televisiva di un programma dove esibisce il suo particolare “potere” che le permette di comunicare con i fantasmi. A differenza della Lydia del primo film, goth e ribelle, il personaggio di Winona Ryder è ora una madre agitata e inquieta, incastrata in una relazione con il suo manager Rory (Justin Theroux) e in perenne contrasto con l’eccentrica matrigna Delia. Non mancano inoltre le tensioni con la figlia Astrid che, oltre a non credere all’autenticità delle abilità della madre, si è progressivamente allontanata da lei dopo la scomparsa del padre.

Meno riuscito, invece, è il personaggio di Delores, troppo abbozzato nella sua semplicista costruzione come villain anonimo e stereotipato. Un inciampo che si affianca ad un altro nemico presentato nel film che coinvolge Astrid in prima persona e che qui non anticipiamo, ma che denota ulteriormente come in Beetlejuice Beetlejuice vi sia forse un po’ troppa carne al fuoco, elementi trattati con eccessiva frettolosità che potevano godere di uno sviluppo migliore. Si tratta comunque di piccole macchie che non rovinano il buon lavoro di caratterizzazione svolto con le altre new entries, come nel caso dell’ex attore di b-movie e ora detective di polizia dell’aldilà Wolf Jackson, interpretato da Dafoe, e nel già citato Rory, uno dei personaggi più esilaranti del film.

Tutte queste peculiarità rendono Beetlejuice Beetlejuice un buon film per famiglie in grado di riflettere in modo semplice ma diretto sulla genitorialità, pur non trattenendo in diverse situazioni il suo humour lugubre, pensiamo ad esempio al body horror cartoonesco e ilare del corpo di Charles Deetz, o alle classiche uscite sopra le righe dello stesso Beetlejuice. Un plauso va anche all’ottima scelta dei brani di accompagnamento, che spaziano dai Sigur Rós a Richard Harris (MacArthur Park è il sottofondo di quella che probabilmente è la scena più bella del film), e alla brillante colonna sonora di Danny Elfman. The juice is loose.

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Daniele Sacchi