Angelina Jolie è Maria Callas nel nuovo film di Pablo Larraín, Maria, presentato in concorso all’81esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Si tratta del terzo capitolo della trilogia di Larraín dedicata all’esplorazione di alcune importanti figure storiche femminili del Novecento dopo Jackie su Jacqueline Kennedy e Spencer su Lady Diana (film ai quali possiamo affiancare il tematicamente affine Ema per le sue acute riflessioni sul corporeo). Come è tipico per il regista cileno, Maria non è il classico biopic che ripercorre la carriera della sua protagonista, bensì è un’opera che si concentra su un particolare momento della vita della cantante lirica di origine greca, una vera e propria “impressione” legata ad un segmento isolato nel tempo che cerca di restituire tutte le complessità del vissuto della cantante.
Larraín reimmagina così Maria Callas a partire dai suoi ultimi giorni, trascorsi a Parigi nel settembre del 1977. Il ritratto messo in scena dal regista cileno e tratteggiato dallo sceneggiatore Steven Knight (già penna di Spencer) è un malinconico dramma che si focalizza in particolar modo sul desiderio della Callas di realizzare ciò che lei definisce come “il canto umano”, una performance musicale che catturi attraverso la musica tutta l’essenza dell’esperienza umana. Tuttavia, i giorni migliori della cantante, ora gravemente malata, sono alle sue spalle, e tornare ad esibirsi sembra una eventualità impossibile.
Fortunatamente, Maria gode del costante supporto della sua governante Bruna Lupoli (interpretata da Alba Rohrwacher) e del suo autista e factotum Ferruccio Mezzadri (interpretato da Pierfrancesco Favino). Queste due figure svolgono un ruolo riequilibrante per la cantante, nel loro tentativo di mantenerla ancorata alla realtà. Larraín infatti lavora mescolando i piani del reale e dell’immaginario, del sogno e della memoria, trasportando lo spettatore nella quotidianità allucinatoria della cantante, pesantemente influenzata dal Mandrax, un potente farmaco dall’azione sedativa e ipnotica.
Rispetto a Spencer però, il quale optava per una soluzione stratificata simile, Maria soffre di una minore intensità drammatica. La spirale discendente di Maria Callas e il suo conseguente movimento ascendente sono privi del peso del trauma della perdita che si avvertiva in Jackie e si presagiva in Spencer. Ciò che rimane è comunque interessante sul piano del rapporto tra la cantante, la sua voce e l’atto performativo in sé, ma nel film non vi sono mai forti scossoni e sussulti. E in un’opera dove l’aspetto musicale è così centrale, la scelta di ricorrere ad un tappeto sonoro puramente legato alla carriera della protagonista – per quanto idealmente possa risuonare come comprensibile – è in realtà un peccato, visto l’ottimo lavoro svolto da Mica Levi e da Jonny Greenwood nei due “capitoli” precedenti di questa insolita trilogia di anti-biopic.
Vi sono anche dei punti di contatto evidenti tra le tre opere, come nella ripresa da Jackie della sottotraccia dell’intervista, nonché gli echi spenceriani di Anna Bolena e, più direttamente, la figura di Aristotele Onassis (interpretato da Haluk Bilginer), compagno di Maria Callas e marito di Jacqueline Kennedy. Maria riesce in ogni caso a costruirsi una propria identità, specialmente nelle meravigliose sequenze di canto dove alle registrazioni perfette e originali della Callas (durante le quali la Jolie è in lip sync), Larraín giustappone le prove amatoriali – ma comunque molto credibili e ben studiate – dell’attrice per sottolineare la tragicità caduca vissuta da Maria Callas nei suoi ultimi giorni. Un ritratto intimista che alla fine convince, soprattutto grazie ad una grandissima Angelina Jolie e a una superba direzione della fotografia (il merito è di Edward Lachman), ma la sensazione è che si potesse puntare molto più in alto nello sviluppo dell’intrigo.
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Daniele Sacchi