The Brutalist di Brady Corbet, la recensione

The Brutalist

Edificato come un monolite di cemento grezzo, The Brutalist di Brady Corbet è un monumento di 3 ore e 35 minuti che si erge con tutta la sua imponente ruvidità e passione. Proprio come un edificio brutalista, l’opera del regista statunitense si presenta come una costruzione massiccia che pone al centro del suo racconto un elemento umano fortemente antitetico rispetto alla fissità austera della sua struttura. Girato in VistaVision in 70mm dal direttore della fotografia Lol Crawley per rievocare le atmosfere delle pellicole anni ’50 (è il formato di film come La donna che visse due volte e I dieci comandamenti, per intenderci), The Brutalist incorpora nel suo mastodontico runtime anche un intervallo di 15 minuti, un fattore che contribuisce a modo suo ad amplificare le sensazioni retro che permeano l’intero film.

Il film di Corbet, co-sceneggiato insieme alla compagna Mona Fastvold e liberamente ispirato a La fonte meravigliosa di Ayn Rand, segue nello specifico la storia di László Tóth (Adrien Brody), un architetto ungherese specializzato nello stile Bauhaus che lascia l’Europa poco dopo la Seconda guerra mondiale per emigrare negli Stati Uniti. Qui, l’uomo si riunisce con il lontano cugino Attila (Alessandro Nivola) e rimette in moto la sua vita lavorando per lui come arredatore d’interni. Lentamente e con grande fatica – non manca anche l’abuso di sostanze – László si fa conoscere per il suo talento, catturando l’attenzione prima di un cliente facoltoso, Harry (Joe Alwyn), e poi di suo padre, il burbero Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce). Con quest’ultimo, László stipulerà un contratto per realizzare un gargantuesco centro per la comunità nella cittadina di Doylestown, in Pennsylvania, un accordo che, tra le altre cose, gli permetterà di portare negli Stati Uniti anche la moglie Erzsébet (Felicity Jones) e la nipote Zsofia (Raffey Cassidy).

The Brutalist prende le mosse da questo ambizioso racconto per fondere l’epopea di C’era una volta in America con le ossessioni industriali de Il petroliere. Lo fa senza gangster o magnati del petrolio, ma con un autentico gusto per l’immagine cinematografica che nel tratteggiare la figura crepuscolare di László ne evidenzia sia i tormenti sia le aspirazioni. Tutto questo sottolineando con il suo lavoro quella «presenza del passato» che è impressa in lui e non può abbandonarlo. The Brutalist vive di queste impressioni intimiste che, tra una sequenza maestosa e l’altra, ci permettono di guardare dentro l’uomo, da vicino, sovrapponendo il nostro sguardo al suo. Come quando László, consumato dalle droghe, smarrisce se stesso nell’ascoltare la musica di un sassofonista. O come quando, nel rivedere i ritagli di giornale con le foto dei suoi lavori ungheresi antecedenti alla guerra, László non può fare altro che commuoversi nel rincontrare se stesso attraverso la sua arte.

Durante l’incipit del film, Corbet cita – forse implicitamente, ma la sovrapposizione dello sguardo è la stessa – la falsa soggettiva de Il figlio di Saul, istituendo un parallelo immediato tra la tragedia dell’Olocausto e il senso di euforia genuina nel trovarsi di fronte per la prima volta alla Statua della Libertà. Vi sono anche alcuni echi tarkovskijani, dall’episodio della campana di Andrej Rublëv rievocato nell’edificazione dell’enorme edificio brutalista di László, sino ad arrivare alle meravigliose sequenze mistico-contemplative realizzate tra le Alpi Apuane che ricordano da vicino l’approccio meditativo di Nostalghia. Ma The Brutalist è tutto fuorché un’opera derivativa. Anzi, al contrario, il film di Brady Corbet vive di cinema, di rimandi, di confronti inevitabili che, come tutti i grandi film, finisce per superare nella produzione del nuovo.

Così, proprio come l’edificio progettato da László, The Brutalist tende verso l’alto. Come la metratura per la quale l’architetto sacrifica la propria paga e il benessere della sua famiglia purché rimanga alterata, esattamente come da lui pensata. Per ascendere, forse, o per accogliere direttamente il divino dopo anni di soprusi e di tragedie, con le mura fredde e impersonali, simbolo di prigionia e di dolore, che si tramutano in pura bellezza formale. Qualcosa che va al di là della realtà stessa, oltre le fondamenta sulle quali si erge la società capitalista rappresentata nel film dai Van Buren, “salvatori” mercificatori piegati dalle esigenze del denaro e dell’acciaio. In questo percorso che prevede sia l’accettazione sia l’opposizione, le ambizioni e il perfezionismo di László finiscono per estendersi oltre alla macchina da presa allo stesso duo Corbet-Fastvold che, in concorso a Venezia 81 (e, si spera, presto nelle sale di tutto il mondo) ci regala un capolavoro senza tempo.  

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Daniele Sacchi