Vermiglio di Maura Delpero, la recensione del film

Vermiglio

Vermiglio, borgo alpino nella Val di Sole, è il «paesaggio dell’anima» al centro dell’opera seconda di Maura Delpero, vincitrice del Gran premio della giuria all’81esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Il paese natale del padre della regista bolzanina, un borgo isolato di poco meno di 2000 abitanti, viene riportato indietro nel tempo, più precisamente nell’ultimo anno della seconda guerra mondiale, per raccontare lo sconvolgimento causato in paese dall’arrivo di due disertori, ospitati segretamente dalla famiglia del maestro locale, il cui equilibrio (apparente) verrà infranto da questa inattesa presenza.

Ispirato dunque alle radici familiari di Delpero, Vermiglio mette in scena con una profonda sensibilità la tensione tra tradizione e cambiamento, tra il ciclo naturale delle stagioni e le trasformazioni imposte dalla guerra. I Graziadei sono il fulcro della narrazione, con il capofamiglia, interpretato da Tommaso Ragno, che rappresenta l’autorità morale e intellettuale del paese. L’uomo, un maestro elementare, educa con severità gli abitanti del villaggio, imponendo peraltro un rigido controllo domestico sulla sua famiglia. In questo contesto difficoltoso, le sue figlie sono le vere protagoniste di un mondo in subbuglio, in cui la modernità cerca timidamente di insinuarsi tra i ritmi lenti della vita rurale.

Il film di Maura Delpero si snoda così attraverso le stagioni, riflettendo il ciclo della natura e della vita umana. La regista esplora la crescita, la maternità, la perdita e la rinascita, mostrando come la guerra, pur lontana dal paese, influenzi profondamente la vita di chi rimane. Il tema dell’ospitalità verso lo “straniero”, rappresentato dal giovane soldato siciliano disertore rifugiato nella casa del maestro, diventa il simbolo di un confronto tra mondi diversi. La figlia maggiore del maestro, Lucia (Martina Scrinzi), si innamorerà del soldato, sconvolgendo la quiete familiare e minando, a causa di alcuni risvolti imprevedibili, la stabilità della comunità intera.

Vermiglio è dunque un racconto intimo che, con una poetica vicina a un autore come Ermanno Olmi (più nello spirito che nell’effettiva impronta registica), intreccia la storia personale di Delpero con quella collettiva, facendo emergere la complessità delle dinamiche comunitarie (e familiari) in un momento di crisi e di trasformazioni, distinguendosi così per la sua delicatezza e autenticità, rivelando i misteri del vissuto nelle sue pieghe più sottili e dolorose, in particolar modo nella sua indagine sullo sguardo femminile. In tutto ciò, la montagna diventa testimone silenziosa di una storia di resistenza, non solo contro la guerra, ma anche contro le gravosità di un sistema sociale e familiare che sembra resistere alla necessità di un cambiamento.

In tal senso, la calda intimità delle case e il gelo delle montagne contrastano con le tensioni interiori di chi, per sopravvivere, deve negoziare tra i propri desideri e le aspettative imposte dalla società e dalla famiglia. Per quanto il film sia indiscutibilmente legato alle specificità del suo microcosmo montano, Vermiglio riesce allo stesso tempo a intessere un dialogo proficuo con lo spettatore, con l’ambizione di tendere all’universale in quella che di fatto è un’esperienza di profonda introspezione. Viene dunque da chiedersi – non con malizia, ma con sincera curiosità – se il ricorso ad uno sguardo meno ermetico e più aperto avrebbe giovato alle pretese internazionali del titolo per cercare di rilanciare l’appeal del cinema nostrano, invece di rincorrere a tutti i costi una certa rigida autorialità.

Daniele Sacchi