Nel film Pretty Woman (1990), l’affascinante miliardario Edward Lewis compra una settimana di compagnia alla giovane prostituta Vivian per l’esorbitante cifra di tremila dollari. In pochi giorni, la loro relazione, da transazionale, si trasforma in una storia d’amore a lieto fine. In Anora (2024), l’ereditiero russo Ivan (o Vanya) Zakharov offre per una settimana di lavoro della protagonista, Anora, cinque volte tanto. Ne consegue un improvvisato viaggio a Las Vegas che culmina in un matrimonio folle.
Presentato in concorso all’ultimo Festival di Cannes (dove si è aggiudicato la Palma d’oro), Anora di Sean Baker sembra portare sullo schermo l’attualizzata fiaba di Cenerentola, ovvero il sogno tipicamente femminile dell’avvento di un principe che, con l’agevolezza propria solo ai potenti, strappi l’eroina da una vita di sacrifici e di miseria. È una speranza a cui Anora si aggrappa con una fiducia incondizionata, ma la sua è una fiaba, purtroppo, grettamente realistica. Il principe è un capriccioso “monello” russo, la principessa è una spogliarellista senza prospettive, il loro matrimonio è una presa in giro e una farsa. Nella prospettiva di Ivan, Anora è un oggetto di compagnia, sposarla è uno sfizio le cui conseguenze saranno risolte da altri. Per Anora, Ivan incarna l’ideale irraggiungibile di una vita – come da lui definita – facile e sempre felice.
Lo sguardo della macchina da presa di Baker, segue efficientemente queste due prospettive. L’introduzione della protagonista è di un bambolotto erotico: deve spogliarsi, deve ballare, deve essere accondiscendente. La messa in scena, per quanto in linea con la concezione delle sex worker nella società moderna, presenta la comune pecca di essere essa stessa a tratti feticizzante e ininfluente alla narrazione. Nel momento in cui l’azione si sposta a Las Vegas, Anora diventa finalmente soggetto, il suo sguardo si allinea a quello di Baker e si sposta quindi sul lusso, sul divertimento, sulla passione e sull’infatuazione, non tanto verso Ivan, ma verso uno stile di vita aspirazionale e patinato. Si mantiene però assente, nel personaggio principale, una tridimensionalità di scrittura in grado di cogliere l’identità della protagonista oltre alla sua maschera lavorativa.
Nel secondo e principale atto, la parabola ascendente della storia d’amore lascia finalmente spazio all’inevitabile rovescio della medaglia, la cui direzione risulta in questo caso impeccabile. Assumendo i tratti di una screwball comedy alla Landis, ma con il ritmo serrato dei fratelli Safdie, il film muta nella delirante odissea notturna di Anora in compagnia dei subordinati della famiglia Zakharov, incaricati di risolvere, entro mattina, il “problema” del matrimonio. Con un tono prettamente comico, Baker ha la maestria di mischiare in modo indissolubile dramma e risata, in una consequenzialità di situazioni al contempo grottesche e umoristiche, ma anche tragiche, tristi e ingiuste. È soprattutto in questo cambio di rotta che Mikey Madison riesce a tirare fuori un’interpretazione realmente brillante quanto meritevole di tutti gli elogi che sta ricevendo. Alla performativa facciata maliziosa e risoluta di Anora, l’attrice riesce a subordinare una profonda vulnerabilità consapevolmente celata, cogliendo pienamente l’umanità della protagonista.
Complessivamente, l’incartamento pop e demenziale di Baker ostenta, con un cinismo quasi crudele, l’amarezza del contemporaneo. Di fronte a consolidate dinamiche di classe e di potere, la realtà è che certi sogni non siano solo illusori, ma avvilenti. Iniquità e sopraffazione sono, causticamente, veicolo di risata. La pellicola di Baker è un feroce sberleffo la cui protagonista è sì una pretty woman moderna, ma del mondo reale. Una falsa storia d’amore, una falsa commedia ad effetto che, solo sul finale, si sveste mostrandosi per ciò che è: una banale tragedia.
Beatrice Gangi