Flow è un oggetto alieno che proviene da uno spazio-Altro dove cinema e videogioco si incontrano, a metà strada tra lo sguardo ecologico miyazakiano e il misticismo delle opere di Fumito Ueda. È un film spirituale Flow, una parabola biblica il cui racconto fluisce tra i paesaggi architettonici alla Ico, il grandeur di Shadow of the Colossus e l’intimismo di The Last Guardian. I punti di contatto tra il film realizzato dal regista lettone Gints Zilbalodis e il corpus dei lavori di Ueda sono di fatto tantissimi ed emergono anche nello stile. Flow, infatti, richiama attraverso il suo linguaggio visivo le atmosfere tipiche di un certo environmental storytelling di matrice videoludica, oltre al ricorso ad animazioni volutamente grezze e imperfette che rifuggono da ogni pretesa di “realismo” per lavorare, invece, per sottrazione.
Così, le pennellate acquerellate che tratteggiano il profilmico digitale di Flow conducono lo spettatore alla scoperta di un mondo in rovina, un mondo nel quale per l’uomo non c’è più spazio. Punto di vista predominante dell’epopea biblica di Zilbalodis è attribuito infatti al regno animale e, nello specifico, a un gatto nero. Flow, in tal senso, è prima di ogni altra cosa un continuo processo di scoperta. Il film, in virtù del suo singolare setting dalle tinte post-apocalittiche, non contiene alcun dialogo: spetta allo spettatore interpretare ciò che vede, accompagnato solamente dallo sguardo – a sua volta perplesso circa la natura degli eventi messi in scena – dell’insolito protagonista felino.
Da questo punto di vista, non vi è quasi mai antropomorfizzazione in Flow, se non in qualche piccola gag che unirà, mano a mano, il protagonista del film con altri animali, trascinati (dal caso?) in un viaggio su una simil-arca di Noé che richiama, alla lontana, il Vita di Pi di Ang Lee, però privato – appunto – dalla sua componente umana. Ciò che emerge attraverso questo ritorno a una primitività arcaica è una visione potente sul vissuto, in una reductio ad unum che conduce ad una meta semi-totalizzante: il puro riflesso empatico. Perché Flow, come da titolo, è sì un’opera sullo scorrere (dell’acqua, così come della vita) e sul divenire, ma è anche introspezione fantasmatica alla ricerca di un movimento corrispondente.
Specchi d’acqua che rimandano prima a se stessi e poi all’alterità, o anche scambi di sguardi che sottintendono vicinanza e comunione d’intenti. Flow fa tutto questo senza il bisogno di dire alcuna parola, con un accompagnamento sonoro (realizzato dallo stesso regista) che oscilla tra Richter e Glass, peccando nel rendering dell’immagine ma compensando le sue sbavature con un senso complessivo che va al di là delle sue imperfezioni, dimostrandosi in grado di toccare questioni importanti – l’attitudine verso il cambiamento, la resilienza dinanzi alle avversità, il fare fronte comune nonché il valore della cooperazione – senza mai “prendere per mano” lo spettatore, senza dover necessariamente “spiegare” ciò che propone, ma lasciando completamente alle immagini il compito di penetrare a fondo. Flow si distingue per il coraggio di proporre un’esperienza a tratti semplice, a tratti invece contemplativa, in grado di fondere linguaggi e sensibilità diverse con una grande autenticità.
Daniele Sacchi