Emilia Pérez di Jacques Audiard, la recensione del film

Emilia Pérez

Presentato allo scorso Festival di Cannes e tra le pellicole più nominate nel corso dell’attuale stagione dei premi, l’Emilia Pérez di Jacques Audiard è un’opera certamente audace. Costruito in quattro atti, un ambizioso ibrido di genere instabile tra la forma camp e colorata del musical, la commedia thriller, e il dramma sociale, porta in scena tematiche varie e complesse come l’identità di genere, il fenomeno dei desaparecidos messicani, la capillare corruzione della fascia alta della società e le dinamiche di potere. Ne consegue un orientamento massimalista che, di contro, appare equiparare la semplice proposizione di una tematica con la reale capacità di rappresentarla e comprenderla profondamente. Emilia Pérez si struttura, di fatto, sull’unico livello di una (tecnicamente encomiabile) forma visiva estremamente ricercata.

La trama: all’apice di una lunga ascesa nei cartelli di Città del Messico, il leader malavitoso Juan “Manitas” del Monte assolda l’avvocatessa Rita Mora Castro come supporto legale nel processo di transizione di sesso, rinunciando alla propria famiglia (la moglie Jessi e i due figli piccoli) e assumendo l’identità femminile in cui si è sempre riconosciuta. Nel primo atto di presentazione dei personaggi, il più riuscito, Manitas diventa la vera se stessa, “rinascendo” nelle vesti di Emilia Pérez. Non riuscendo poi a sopportare la lontananza dalla ex moglie e dai figli, li accoglie nella propria casa nelle fittizie vesti di tia, ovvero zia, dei due bambini.

L’elemento musicale, volutamente enfatico, risulta pressoché slegato alla narrazione e, nonostante i numeri siano congegnati nella direzione dell’arthouse cinema più che del musical commerciale, poco si integrano con il registro drammatico e con i contenuti delicati della pellicola, in un rapporto alienante, a tratti spregevole e di cattivo gusto. Come sequenze a sé stanti, i pezzi risultano invece assolutamente funzionanti, dinamici e ben coreografati. Da elogiare sono inoltre le ottime interpretazioni, in particolare di Karla Sofía Gascón nel ruolo di Manitas/Emilia e di Zoe Saldaña in quello dell’avvocatessa Rita, impeccabile sia nel registro drammatico, che nei numeri cantati.

Tematicamente, il film di Audiard si attesta come un’opera piuttosto incerta. La questione di genere, incarnata da un personaggio potenzialmente potente come quello di Emilia, non assume mai una direzione precisa, ingarbugliandosi in uno schema di controsensi quanto nella semplificazione dei suoi tratti maschili come “crudeli” e di quelli femminili come “compassionevoli”. Il regista appare volerne mistificare la figura, adattandola al contempo su diversi archetipi contrastanti a seconda della direzione desiderata per il proseguimento della narrazione. In parallelo, risulta indeciso nel messaggio che desidera trasmettere, dapprima separando completamente le due identità Manitas/Emilia asserendo quindi a un cambiamento del corpo come di un cambiamento dell’anima – quindi di una trasformazione morale insita a quella fisica – per ritrattarle in seguito come co-presenti e indissolubili, riorientandosi infine, e ingiustificatamente, verso la lettura iniziale.

Questo, quantomeno, tentativo di discutere in maggiore profondità le tematiche portate in scena è invece completamente assente nei personaggi secondari (il conflitto morale di Rita, il bisogno di autoaffermazione di Jessi) e nel macro-tema dei desaparecidos, inserito come sfondo atto a nobilitare la figura di Emilia ma gestito con una leggerezza al limite del pacchiano. L’impressione è che Audiard, di provenienza francese, abbia scelto di contestualizzare il film in Messico come cornice culturale decorativa, mancando di una reale volontà di comprendere la realtà del Paese oltre lo stereotipo, senza avvalersi di attori messicani o, quantomeno, di interpreti (come nel caso della Jessi di Selena Gomez) capaci di parlare fluentemente la lingua. Di conseguenza, l’eccellente componente visiva e quella sonora risultano anch’esse ornamentali, un mix di intuizioni, registri e forme estetiche combinate in uno sfoggio di tecnica tendenzialmente vacuo. A concludere, l’Emilia Pérez di Jacques Audiard appare confondere un cinema audace con un cinema impegnato, esteticamente ottimo, superficialmente complesso, ma inconsistente a livello contenutistico e prodotto di un regista che sembra non sapere se biasimare, canzonare o nobilitare la propria storia.

Beatrice Gangi