We Live in Time di John Crowley, la recensione del film

We Live in Time

Prassi comune per le anteprime di film particolarmente attesi prevede il regalo di piccoli gadget brandizzati al pubblico. Così, per la presentazione italiana di We Live in Time, pellicola del 2024 diretta da John Crowley, sono stati offerti agli spettatori pacchetti di fazzolettini riportanti il titolo del film a grandi lettere, un monito non particolarmente implicito di un “invito” a piangere durante la proiezione. Il film, un meet cute dallo sviluppo tragico, si potrebbe descrivere come il perfetto esempio del dramma romantico hollywoodiano a pilota automatico, un mix sapientemente assortito di tutti i topoi narrativi che, negli anni, hanno definito il genere. Si intende, un cronogramma romantico scandito da primo incontro e infatuazione, momentanea rottura, plateale dichiarazione d’amore e pacificazione, qui seguita (rimandando al Love Story di Arthur Hiller) dalla svolta tragica della malattia di uno dei due partner.

Non mancano poi prevedibili snodi narrativi come la coincidente sovrapposizione di date importanti, un montaggio commovente a tema gravidanza, l’esplicitazione (piuttosto didascalica) del personaggio femminile come emancipato e non circoscritto al ruolo di moglie o madre, ed il monologo, o scena madre, per entrambi gli attori principali. Una serie di considerazioni non finalizzata ad etichettare il film come poco riuscito o come poco curato, ma a evidenziarne la criticità principale: l’artificiosità. L’impressione, è di assistere a un varietà in prima serata, di quelli con il gobbo a suggerimento delle reazioni al pubblico: piangi, ridi, sospira, commuoviti, o indignati. Si tratta, di fatto, di un film non stucchevole o melenso, ma limitato alla superficiale istigazione di una serie di reazioni istintive e primordiali nello spettatore.

Il tentativo di Crowley di autorialità – o di apportare profondità – si concentra in quella che dovrebbe essere una riflessione sul valore del tempo. Esplicitata già nei primi minuti di film, si riassume nel quesito se sia meglio averne poco, ma viverlo pienamente, o se sacrificarsi nel presente così da garantirsene un po’ di più nel futuro. La domanda, pur non particolarmente innovativa, si apre a parecchi spunti di riflessione. Eppure, la propensione di Crowley verso la prima lettura, fatica a stabilire in cosa, effettivamente, consista “dare valore al proprio tempo”, semplificandone la risposta nel raggiungimento di un obiettivo specifico e nell’autoaffermazione del sé. A ciò si accosta la poco giustificata e poco interessante scelta di montaggio a livelli temporali sfalsati che, più che incentivare una rappresentazione del tempo come fuggevole, tende a rendere la narrazione immotivatamente frammentaria e priva di focus.

Molto buone sono sicuramente le interpretazioni di entrambi gli attori principali, bensì limitate dalla sceneggiatura piuttosto banale firmata Nick Payne. L’ottima chimica tra Andrew Garfield e Florence Pugh aiuta comunque nel dare una maggiore credibilità alla relazione tra i due protagonisti. Il tema della malattia, infine, pecca nel non essere affrontato fino in fondo. Crowley evita di trattare direttamente il tema della morte e il risultato è quello del cancro come di un mero pretesto narrativo lasciato prevalentemente fuori campo. Nonostante tutte queste pecche, We Live in Time è funzionante come prodotto commerciale e di intrattenimento, ben diretto, ben recitato, drammaticamente pregno, ma, forse, eccessivamente artefatto e quindi privo di anima.

Beatrice Gangi