Cure (1997) di Kiyoshi Kurosawa, opera seminale che anticipa le derive j-horror di fine anni ’90 e primi anni 2000, è un’incursione cupa nel perturbante umano. Come nel suo cult Pulse (Kairo, 2001), dove a darsi predominante è un fatalismo che individua nella potenzialità connettiva di Internet un abisso di solitudine e di terrore, anche in Cure lo sguardo cinico di Kurosawa cerca di mettere a nudo il dominio del sepolto e del rimosso. Lo fa con un animo procedural che mescola suggestioni occidentali (da film come Se7en e Il silenzio degli innocenti) con i ritmi del cinema giapponese più mite e atmosferico, soffermandosi su un’indagine poliziesca condotta a Tokyo dal detective Takabe (Kōji Yakusho). Si tratta, nello specifico, di una serie di casi apparentemente scollegati tra loro, in cui persone comuni e “ordinarie” erompono in brutali atti omicidi, lasciando sul corpo delle loro vittime un’enigmatica X.
Partendo da questa traccia narrativa dalla natura poliziesca, Cure si concentra presto sulla bizzarra relazione di co-dipendenza simbolica – profondamente respingente – che si viene a determinare tra Takabe e il misterioso Mamiya (Masato Hagiwara), figura errante e sibillina che sembra in grado di manipolare il vissuto interiore delle persone con cui interagisce. La presunta capacità di Mamiya di intercettare e di riplasmare lo spazio inconscio dell’Altro si tuffa a piene mani in un immaginario liquido e inquieto che abbraccia la teoria del magnetismo animale di Franz Anton Mesmer, non come forma di ribilanciamento armonico ma come fonte di dissesto. Ad emergere è un’azione destabilizzante e derealizzante che si codifica come protesi del maligno, un’energia vitale negativa che protende dall’essere umano e che mira all’annichilimento.
Se in Pulse siamo tutti traccia fantasmatica – nonché i veri spettri del Reale – in Cure invece siamo tutti malati, vittime della nostra stessa repressione. La cura può essere somministrata solamente da un dendōshi (il titolo originariamente pensato per il film, modificato per evitare riferimenti troppo espliciti al culto Aum Shinrikyō responsabile dell’attentato alla metropolitana di Tokyo del 1995), un missionario o evangelista che può tentare di liberarci. In questo, Mamiya agisce come entità misterica, dai poteri quasi elementali, a cavallo tra l’acquatico e l’incendiario, tra bicchieri rovesciati e le fiammelle di un accendino. È l’acqua, in particolare, ad assurgere a vero e proprio fluido “curativo”, una manifestazione mesmerica che bagna le menti e che invita a lasciarsi alle spalle i dolori sepolti alla ricerca di una vana liberazione materiale.
In tal senso, Cure identifica come matrice opprimente la malafede sartriana di una collettività depauperata della sua essenza e ridotta alle pulsioni irrisolte del singolo. Un puttaniere uccide una prostituta, un marito uccide la moglie, un poliziotto uccide un collega: piccoli semi taciuti, sottesi e mai cresciuti che, in accordo con una noia puramente esistenziale, germogliano all’improvviso e appassiscono. In questo contesto, Takabe, tra le angosce di un caso impossibile e i problemi personali (come la malattia della moglie Fumie), si ritrova a sua volta sospeso nella ripetizione del quotidiano, parte di uno status quo irreparabile che, in un modo o nell’altro, non può che coinvolgere tutti. Anticipatorio, in tal senso, è l’incipit del film, il quale mostra Fumie leggere la fiaba di Barbablù, ponendo così un accento implicito sul dualismo contradditorio tra le convenzioni sociali che sposiamo (la maschera che indossiamo) e il nostro vero volto, nonché l’attività insondabile del nostro inconscio desiderante.
Daniele Sacchi