Cloud di Kiyoshi Kurosawa, la recensione del film

Cloud

Nell’immaginario contemporaneo il Cloud, o meglio ciò che compete all’online, è innatamente concepito come virtuale. È popolato da utenti, che si distinguono dalle persone, ed è dominato da una morale binaria, che si discosta dall’ambiguità comportamentale grigia del mondo fisico. Di conseguenza, chi lo frequenta non è vincolato ad assumere – o esortato a richiedere – gli standard minimi di condotta convenuti per il quotidiano.

Da sempre interessato alla potenzialità dell’Internet come facilitatore (e vetrina) di impulsi altrimenti repressi, Kiyoshi Kurosawa torna nelle sale con Cloud, epopea di un bagarino digitale. Il protagonista, Yoshii Ryosuke (Masaki Suda), personifica il piccolo criminale anonimo, mansueto e poco assertivo nella vita reale, aggressivo e meschino (da cui il nickname da rivenditore, ratel) qualora oscurato dalla nuvola informatica. Kurosawa gioca, appunto, con l’illusione di intangibilità con cui gli atti di spietatezza online vengono perpetrati, su come siano continuativamente impartiti da predatori dimentichi della concretezza del male che stanno causando e delle persone che stanno nuocendo. Allo stesso tempo, il regista osserva una circolarità per cui, nonostante Internet agevoli l’anonimato da un lato, dall’altro favorisce la costituzione di bolle identitarie e radicalizzate, microcosmi di individui realmente violenti o realmente crudeli che tramite la rete possono riconoscersi. Il risultato è la creazione di comunità, concrete, di soggetti le cui idee distorte sono state validate e confermate vicendevolmente tramite algoritmi. Per Ryosuke, delinea la costituzione di una comunità di sue vittime e detrattori, la conseguenza tangibile di torti astratti.

La confluenza di piani di realtà, fisico e virtuale, si modella in una convergenza di generi, drama, thriller, horror, e (ineditamente) azione. La calibrata tensione del primo atto dirompe, nel secondo, in una frenetica caccia all’uomo, uno sparatutto letargico, tanto impregnato del caratteristico senso di apatia proprio della filmografia di Kurosawa, da risultare al limite della parodia di genere. Al pari delle transazioni online, la violenza fisica si riveste di simile impermanenza, atti dissociati e gratuiti compiuti perché si ha la possibilità di farlo. Particolarmente acuta, ma lasciata in parte sottosviluppata, è inoltre la pungente constatazione dell’autore sulla sempre maggiore diffidenza verso il concetto di “felicità convenzionale” (una famiglia amorevole, una casa accogliente, un lavoro onesto) distorta, nel contemporaneo, nella farsa di ciò che dovrebbe essere, tanto da chi la persegue che da chi la rigetta.

In conclusione, Cloud sviluppa in maniera perfettamente coerente la poetica del regista, consistendo in una parabola molto più stratificata dell’apparente lineare favola karmica di cui si rende teatro. Con grottesco cinismo e fittizia neutralità, Kurosawa saggia ancora una volta il malcontento capillare di una società alienata, di una modernità i cui insignificanti microcosmi di ferocia – quali il mondo contenuto di Ryosuke – non sono che i singoli sfoghi di un malessere condiviso.

Beatrice Gangi