Il testamento di Orfeo (1960) è l’opera che chiude la trilogia orfica di Jean Cocteau, nonché l’ultimo film realizzato dal poeta, autore e artista francese prima della scomparsa avvenuta tre anni più tardi. La pellicola, che prosegue il discorso sulla poesia e sulla produzione artistica già avviato nei due lavori precedenti della trilogia (Il sangue di un poeta e Orfeo), può essere in tal senso considerata come una vera e propria opera testamentaria di Cocteau stesso. Oltre a curarne la sceneggiatura e la regia, il regista francese svolge anche il ruolo del protagonista del film, tessendo un’interessante quanto insolita riflessione sul mestiere del creativo che prende le mosse dalla sua esperienza individuale.
Da un punto di vista strettamente narrativo, infatti, Il testamento di Orfeo non si presenta come un racconto tradizionale, bensì come un insieme di vignette che in un flusso di coscienza visuale e rappresentativo accompagnano lo spettatore nel viaggio onirico dello stesso Jean Cocteau, con un’impronta stilistica vagamente reminiscente di quanto si poteva visionare ne Il sangue di un poeta (senza raggiungerne gli estremi).
Cocteau infatti interpreta nel suo film un poeta che viaggia nel tempo, confrontandosi con se stesso e con le sue opere, chiamando peraltro a comparirvi diversi amici e collaboratori, dal cast principale di Orfeo sino a personalità come Yul Brynner e Pablo Picasso. Il confronto con il secondo film della trilogia orfica svolge in particolare un ruolo fondamentale ne Il testamento di Orfeo, con Cocteau che viene guidato nel suo viaggio d’introspezione da un redivivo Cégeste (Édouard Dermit). Cocteau riprende persino la sequenza del processo di Orfeo, nella quale stavolta si trova però lui stesso ad essere giudicato e, infine, «condannato a vivere», o più precisamente a vivere nelle sue stesse opere.
L’idea che risiede alla base della creazione artistica è infatti uno degli aspetti maggiormente sottoposti ad esame ne Il testamento di Orfeo. In cosa consiste, di fatto, un’opera d’arte? Secondo Cocteau, l’arte sembrerebbe essere inizialmente indipendente dall’autore stesso, che si troverebbe dunque solamente ad imporle una precisa forma: è l’opera stessa infatti a darsi autonomamente, «sognando di uccidere il suo creatore». Inoltre, interrogato in seguito sulla natura del cinema, Cocteau ritiene che la settima arte sia in grado di attribuire l’apparenza del reale all’irreale, andando così oltre ai limiti dell’uomo, giungendo così a nobilitare la funzione autoriale che si trova a dare forma tangibile a questi limiti.
Il testamento di Orfeo, infatti, non è nient’altro che una grande celebrazione di Cocteau in quanto autore, nella tensione tra la propria autoreferenzialità e la necessità di stabilire un’ontologia dell’arte ben definita. Proprio a proposito di questa tensione, Cocteau non sembra in realtà dimostrare di volersi perdere in eccessive e lunghe discussioni sulle proprie concezioni filosofiche a riguardo. Il punto, per Cocteau, risiede altrove: nel suo peregrinare nel tempo e nello spazio, il regista francese vuole rappresentare la propria morte e conseguente rinascita, per trasformare così la propria condanna alla vita nell’immortalità del suo corpus autoriale.
In un mélange di pensieri, immagini e riferimenti alla vita, ai lavori e alle idee di Cocteau, il regista francese ci lascia così con Il testamento di Orfeo la propria personale eredità. Jean Cocteau ci dona il suo essere, la propria essenza, con un’opera fittizia che, nel profondo, è intimamente pregna del reale. La trilogia orfica si chiude dunque con un vero e proprio elogio alle potenzialità espressive del cinema in quanto forma d’arte a sé stante, capace di donare, in parallelo con le altre arti, una simbolica immortalità a coloro i quali decidono di dedicarvisi interamente, con le proprie forze, senza per questo tralasciare il significativo aiuto degli altri.
Daniele Sacchi