Il nuovo film di James Gray, Ad Astra, nasce come un progetto ambizioso: fondere uno scenario distopico e fantascientifico con la necessità di riflettere sull’essere umano, un’operazione che con il passare degli anni appare sempre più complessa, sia nelle necessità produttive richieste sia nel confronto con le opere che si sono già mosse in tal senso (anche nel passato recente). La pellicola, in concorso alla 76esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, non è sfortunatamente una rivoluzione.
Ad Astra è, purtroppo, un’unione eterogenea di altre opere riuscita male (dal Sunshine di Danny Boyle all’Interstellar di Christopher Nolan, con un pizzico del Gravity di Alfonso Cuarón e dell’immortale 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick) e realizzata con un grande budget a disposizione, un tentativo di replicare il già visto con un punto di vista differente ma incredibilmente retorico e artificioso.
Nello specifico, Ad Astra ci mostra una Terra sconvolta da una serie di catastrofi causate da scariche di elettricità apparse all’improvviso. Il colonnello Roy McBride (Brad Pitt) viene inviato nello spazio dal governo statunitense per indagare: le scariche sarebbero infatti generate dai raggi cosmici emanati da Nettuno, sul quale si stanno verificando a sua volta numerose ed inspiegabili esplosioni radioattive. Roy è la persona più qualificata per indagare, oltre al fatto fondamentale di essere il figlio di Clifford McBride (Tommy Lee Jones), un astronauta leggendario scomparso da 16 anni proprio nei pressi di Nettuno. La missione di Roy è salvare la Terra, ma è anche un’occasione per scoprire qualcosa di più su suo padre e su se stesso.
Ciò in cui brilla Ad Astra è senza ombra di dubbio il comparto tecnico. La direzione della fotografia è affidata a Hoyte van Hoytema, conosciuto per il suo lavoro soprattutto per Lei (Spike Jonze, 2013), il già citato Interstellar e Dunkirk (Christopher Nolan, 2017), mentre la colonna sonora è opera di Max Richter. Nel connubio tra le splendide cromie adottate dal primo, sempre contestualizzate al pianeta o al satellite visitato (evidenziato ad esempio nelle tinte rosse della base spaziale di Marte), con i paesaggi sonori composti dal secondo, Ad Astra si presenta, perlomeno sul piano formale, come un grande sforzo produttivo e creativo.
Il problema più grave che mina le fondamenta del film di James Gray risiede purtroppo nell’architettura narrativa, incapace di sostenersi autonomamente. Se da un lato la gestione della tensione spettatoriale è curata adeguatamente nelle fasi più concitate dell’opera grazie al sopracitato lavoro di forma, dall’altro sembra che il regista statunitense (che per il film ha curato anche la sceneggiatura insieme a Ethan Gross) si sia dimenticato di supportarla con un intreccio adeguato. La trama si ferma all’originalità della sua idea narrativa: il resto è un condimento di frasi fatte e di stereotipi vecchi quanto Hollywood, dal mito dell’uomo duro e forte ma che all’occorrenza riesce anche a piangere, sino ad arrivare – tra gli altri – alla dissoluzione famigliare causata dal sacrificale lavoro per la patria. Nel mezzo, qualche idea strampalata: pirati lunari e animali aggressivi.
Sul piano tematico, Ad Astra tocca diversi tasti ma non ne approfondisce nessuno, non concludendo di fatto nulla se non il mettere in atto un tiepido richiamo alla ripresa collettiva del contatto con l’alterità, insieme alla valorizzazione di ciò che si ha piuttosto di ciò che si vorrebbe avere. La cornice nella quale la riflessione si svolge è tuttavia densa di molteplici elementi di disturbo che non permettono di stabilire concretamente l’oggetto d’indagine del film se non nelle battute conclusive. James Gray confeziona quella che per lui è «la rappresentazione più realistica del viaggio nello spazio mai realizzata in un film» (cfr.), ma il risultato non è nient’altro che un involucro vuoto che non sa nemmeno cosa vorrebbe contenere.
Daniele Sacchi