Spartacus (1960) è il quinto film e il coronamento della prima fase della carriera di Stanley Kubrick, chiamato dopo il successo del controverso Orizzonti di gloria (1957) ad adattare una sceneggiatura di Dalton Trumbo basata sulla vita e sulle imprese del condottiero trace Spartaco. L’opera è un vero e proprio kolossal, ispirato al romanzo omonimo di Howard Fast, che si propone come un chiaro e netto episodio di distacco rispetto ai noir e ai film di guerra girati precedentemente dal regista, che a partire proprio da Spartacus intensificherà, di pellicola in pellicola, gli sviluppi della propria poetica ed estetica cinematografica. Anche se, a detta della figlia Katharina, Kubrick non ha mai considerato Spartacus come un suo effettivo lavoro a causa dei numerosi interventi operati nel processo decisionale dalla produzione e da Kirk Douglas, che oltre a interpretare il ruolo del gladiatore Spartaco figura anche nelle vesti di produttore esecutivo.
Ma al di là di quelle che possono essere le considerazioni personali di Kubrick nei confronti del film, se visionato con uno sguardo oggettivo è possibile individuare diversi tratti e stilemi che si sarebbero poi ripresentati nei suoi lavori successivi, ergendo dunque Spartacus ad antesignano fortunato – per quanto maltrattato – del resto della carriera del regista e che merita dunque di essere riconosciuto come tale. Pur non avendo formalmente il pieno controllo del film, Kubrick è riuscito in ogni caso ad imporvi il proprio punto di vista creativo, scontrandosi apertamente e a più riprese con il resto della crew tecnica. La fotografia, ad esempio, sebbene attribuita a Russell Metty – per la quale vinse anche un Oscar – è in realtà curata quasi interamente da Stanley Kubrick stesso, in un perfezionismo maniacale che ha cercato di estendere, suo malgrado non riuscendovi pienamente, anche alla componente narrativa.
L’epica storia di Spartaco, qui presentata con numerose libertà artistiche e un pizzico di melodramma (pensiamo ad esempio alle modalità attraverso le quali si sviluppa il rapporto tra il trace e Varinia, interpretata da Jean Simmons), è tutto sommato molto semplice. Spartaco è schiavo di un proprietario di gladiatori di Capua, Lentulo Batiato, personaggio interpretato dall’unico attore premiato con un Oscar per un film girato da Stanley Kubrick, Peter Ustinov. Presto, Spartaco si troverà a guidare una feroce ribellione contro i Romani, nel tentativo di riconquistare la propria libertà.
Le intuizioni di Kubrick emergono in particolare in alcune sottolineature registiche che separano nettamente Spartacus dagli altri kolossal dell’epoca, come Ben-Hur (William Wyler, 1959) o Lawrence d’Arabia (David Lean, 1962). Nello specifico, a causa del veto posto dalla produzione sull’alterazione della sceneggiatura di Trumbo, Kubrick cerca dunque di influenzare il racconto in diverse occasioni attraverso alcuni stratagemmi peculiari, come la dilatazione dei tempi drammatici. Nel caso, ad esempio, della scena che anticipa la lotta tra Spartaco e lo schiavo Draba (Woody Strode), il regista ricorre al silenzio per amplificare la tensione e il senso di pericolo percepito dai due uomini mentre attendono la fine dello scontro tra i gladiatori che li precedono, arricchendo allo stesso tempo le inquadrature dei loro volti con una precisa consapevolezza fotografica frutto della sua esperienza passata nel campo.
Inoltre, le sequenze dedicate ai conflitti politici in corso a Roma – che si alternano nel corso del film alle gesta del condottiero trace – sono dotate di altrettante finezze stilistiche che permettono allo spettatore di immergersi appieno nelle vicende di Spartacus, proprio perché non sono raccontate con sufficienza o superficialità in un’ottica puramente visuale. Anzi, il film di Kubrick sembra quasi proporsi in alcuni momenti, senza tuttavia esagerare, come un piccolo saggio sull’azione coercitiva del potere, esibita nella forma del sesso e della violenza. Le relazioni tra i personaggi di Spartacus sono dominate dalla tensione tra il principio di piacere e il principio di realtà, in una riduzione rappresentazionale quasi freudiana dei rapporti umani che non sembra volersi proporre solamente come parte del contesto storico che cerca di descrivere.
Basti pensare ad esempio al momento in cui le due consorti di Marco Licinio Crasso (Laurence Olivier) e di Marco Publio Glabro (John Dall) si trovano a dover scegliere i gladiatori che combatteranno per loro, con la macchina da presa che indugia sugli sguardi delle due donne evidenziandone a dovere la pulsione scopica e l’inevitabile riduzione del corpo maschile a mero feticcio e oggetto del desiderio, pulsione corroborata da una conseguente manifestazione di violenza che richiede una compensazione reale e tangibile: la morte dei partecipanti. Con Spartacus, Stanley Kubrick anticipa alcuni degli elementi che ritorneranno già nel successivo Lolita (1962) e in parte anche ne Il dottor Stranamore (1964), dimostrando come anche nel lavoro in cui è stato maggiormente limitato nel corso della sua carriera sia stato in grado di esprimere il proprio grande ed incredibile talento.
Daniele Sacchi