Presentato fuori concorso alla 72esima edizione del Festival di Cannes e distribuito in Italia da Lucky Red, A Prayer Before Dawn (qui il trailer) racconta la storia di Billy Moore, ex pugile inglese attivo in Thailandia, incarcerato in una delle prigioni più pericolose della nazione dopo essere stato sorpreso in possesso di droga. La vicenda, raccontata nell’omonimo libro dallo stesso Moore, ha avuto fine solamente al rimpatrio in Gran Bretagna, avvenuto nel 2010.
Diretto da Jean-Stéphane Sauvaire e interpretato da Joe Cole (volto noto soprattutto grazie a Peaky Blinders), A Prayer Before Dawn racconta i tre anni che Billy Moore trascorse nelle prigioni thailandesi dopo essere stato arrestato dalle autorità locali per possesso di Yaba, la cosiddetta “droga della pazzia”. La narrazione però non si ferma solo a questo, mostrando allo spettatore gli orrori nascosti delle prigioni thailandesi. Infatti, appena il protagonista entra in carcere, la regia ci mostra un Billy spaesato, perso nella moltitudine di corpi sporchi e tatuati che si trovano nelle grandi celle comuni. Sia il sonoro sia la fotografia rappresentano questi momenti di spaesamento in modo chiaro e immersivo: da una parte abbiamo una presenza costante di caos sonoro, dove la lingua locale e l’inglese di Moore si intrecciano e stridono insieme; dall’altra, la macchina da presa segue i movimenti confusi del protagonista, avvicinandosi pericolosamente ai volti minacciosi dei suoi compagni di cella e opprimendo lo sguardo dello spettatore negli ambienti chiusi della galera.
La regia prosegue con questa poetica per tutta la durata del film. Assistiamo alla pena di Moore come se fossimo presenti fisicamente vicino a lui. Conosciamo da vicino l’astinenza, i soprusi, le violenze e l’innamoramento da spettatori passivi, il più delle volte scegliendo di subire invece di ribellarci, come lo stesso Billy Moore. Guardare A Prayer Before Dawn fa male. La sensazione è quella di trovarsi nel girone dei golosi dell’Inferno dantesco, dove i corpi ammassati si contorcono gli uni sugli altri e dove i più deboli vengono inghiottiti dalle fauci dei più forti. Un ciclo infinito, una colpa da espiare che mai finirà. Tutto questo è accompagnato da un costante silenzio caotico; ci si trova in un luogo dove l’incomunicabilità dilaga e dove il caos regna sovrano.
Sauvaire insiste molto affinché lo spettatore abbia la sensazione di vivere fisicamente nelle prigioni di Bangkok e, per questo motivo, decide di girare interamente il film in una prigione dismessa del posto, facendosi aiutare dal reparto artistico nelle ricostruzioni interne degli ambienti. La scenografia, infatti, non salta all’occhio per la sua eccentricità, anzi, quasi si nasconde, arricchendo ancora di più la sensazione di realismo dell’intera messinscena. Lo stesso realismo che si respira sul ring, nelle sequenze one shot che il direttore della fotografia David Ungaro riprende da vicino, quasi ad accentuare il grado di responsabilità che pesa sulle spalle dello stesso Moore. Durante gli anni di prigionia, infatti, Billy Moore si avvicina alla pratica del Muay Thai per potersi guadagnare sia un posto di “prestigio” all’interno del carcere, sia per sopravvivere alla vita all’insegna del baratto che si conduce all’interno delle quattro mura delle celle. Lo sport diventa quindi mezzo di sopravvivenza e unica pratica per potersi affermare laddove nemmeno le parole, ormai, possono servire a comunicare.
A Prayer Before Dawn non è un film perfetto ma sicuramente difficile da guardare senza essere colpiti psicologicamente e fisicamente dalle vicende narrate. L’oscurità onnipervasiva accompagna lo spettatore, e Billy Moore stesso, in questo viaggio perennemente notturno, dove la luce ritorna simbolicamente verso la fine del film, quando Billy si risveglia da un incubo atroce e doloroso e viene riportato alla realtà.
Erica Nobis