“Detention” di John Hsu – Recensione (FEFF 22)

Detention

Sin dai primi momenti di Detention (2019), si rende evidente di fronte allo sguardo spettatoriale come quello che poteva essere un interessante resoconto sul periodo del Terrore Bianco taiwanese sia stato sottoposto ad un’operazione di mélange di generi che mal si sposa con il tono della narrazione e le tematiche esplorate. Per quanto l’intento di fondo sia lodevole e stimolante sulla carta, il risultato finale del lungometraggio di esordio di John Hsu è un film che non riesce mai a coniugare perfettamente il ricorso ai tòpoi del genere horror con le esigenze del racconto, restituendo allo spettatore alcune sequenze esteticamente accattivanti ma prive di un’effettiva consistenza nell’esame complessivo dell’opera.

Sebbene vi siano delle evidenti criticità, il film, presentato nella cornice del 22esimo Far East Film Festival, presenta alcuni tratti caratteristici che meritano di essere esaminati con attenzione. La genesi del progetto è, ad esempio, abbastanza particolare, dal momento che Detention è l’adattamento di un omonimo videogioco survival horror taiwanese. Il film ne ripercorre la trama narrando i tentativi di un ragazzo e di una ragazza di fuggire dalla scuola che frequentano mentre uno spirito malvagio (wangliang nella tradizione folkloristica e mitologica cinese) dà loro la caccia, cercando di svelare allo stesso tempo i misteri legati proprio alla scuola e più in generale al periodo di oppressione e di legge marziale preso in esame.

Detention

Tuttavia, gli elementi che rendevano degno di nota il videogioco vengono ridotti a semplici macchiette e stereotipi nell’adattamento cinematografico e i contenuti più marcatamente storici del film non vengono amalgamati in maniera fluida e scorrevole con quelli più evocativi e di matrice horror provenienti dal testo videoludico di riferimento. Il sottotesto metaforico è evidente, con la ridondante presenza di paragoni non troppo velati tra l’oppressione del KMT, il partito di Stato nel periodo del Terrore Bianco, e gli spiriti vendicativi del film, ma non è sufficiente per fornire al tutto un qualunque tipo di spessore simbolico. Inoltre, sembra che alla base di Detention vi siano delle indecisioni strutturali abbastanza evidenti che denunciano la volontà registica e sceneggiativa di voler cercare di mettere in atto molte cose, sia da un punto di vista narrativo sia da un punto di vista estetico, evidenziando però il grave limite di non essere in grado di riuscire a condurre realmente il suo discorso verso territori critici significativi.

Il grave peccato di Detention, a malincuore, è di fatto proprio la sua premessa. O, più concretamente, come quest’ultima viene narrativizzata. Il film, secondo John Hsu, dovrebbe trattare di libertà, ma gli unici momenti in cui questo concetto viene effettivamente toccato sono quelli dai toni più melò, il più delle volte centrali nei numerosi flashback mostrati allo spettatore. Ancora una volta, Detention non sembra voler supportare pienamente la sua idea narrativa, preferendo piegarsi invece ad un caos formale e, in alcune istanze, anche tematico, passando dal racconto del disagio di un popolo alla messa in scena di problematiche individuali, saltando continuamente dall’universale al particolare e viceversa senza alcuna ragion d’essere. Detention, purtroppo, è un prodotto che poteva potenzialmente ambire ad essere qualcosa di più grande ma che, di fatto, non è nient’altro che un’occasione sprecata, per quanto possa essere comunque percepito come un segnale importante in termini di rappresentazione e di immaginario per il suo Paese.

Le recensioni del Far East Film Festival 22

Daniele Sacchi