L’albero degli zoccoli, diretto dal grande regista italiano Ermanno Olmi e vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes del 1978, viene spesso definito come un film erede della lezione neorealista. L’opera di Olmi, tuttavia, è ben lontana da quelli che erano gli intenti principali del Neorealismo e, anzi, esprime in realtà un’idea di cinema incredibilmente personale e strettamente legata al vissuto dell’autore bergamasco. Da un lato, si può facilmente intuire la confusione: L’albero degli zoccoli, in modo non molto dissimile dal cinema neorealista, cerca di catturare attraverso l’immagine cinematografica il vero, ricorrendo ad attori non professionisti e ad una rappresentazione del reale che mira a darsi agli occhi dello spettatore come il più possibile autentica. Dall’altro lato, tuttavia, Olmi non è interessato a direzionare il proprio sguardo sula sua epoca, sulla vita quotidiana dell’uomo e sui suoi drammi, bensì la sua visione è completamente orientata verso il passato.
L’albero degli zoccoli, da questo punto di vista, invece di far emergere i problemi e le criticità del contemporaneo, guarda nostalgicamente a tempi considerati perduti, ad un mondo che non c’è più ma che Olmi vuole ricordare e a modo suo valorizzare. Nello specifico, il film racconta allo spettatore le storie di un gruppo di contadini residenti presso una cascina nelle campagne bergamasche tra il 1897 e il 1898. La narrazione non ha un filo conduttore che lega i fatti rappresentati, bensì si limita a mostrare la vita dei contadini nel suo continuo ed implacabile divenire, giorno dopo giorno, evento dopo evento.
Un padre, ad esempio, si trova a dover fare i conti con le proprie difficoltà economiche quando il figlio torna a casa da scuola con uno zoccolo rotto. Una donna, invece, viene mostrata mentre ricerca una soluzione alla malattia della mucca di famiglia. E ancora, Olmi ci racconta il corteggiamento silenzioso di un ragazzo verso una giovane, un episodio che ci porterà fuori dalle campagne bergamasche e nelle vie di Milano. Il regista – che nella realizzazione del film si è occupato anche della direzione della fotografia, ottenendo uno splendido risultato che a tratti sembra ricordare i capolavori di Andrej Tarkovskij – passa senza soluzione di continuità da una storia all’altra, creando un percorso visuale più che narrativo e rendendo L’albero degli zoccoli un vero e proprio “quadro in movimento”.
Ermanno Olmi cristallizza dunque il tempo, cercando di imprimere sull’immagine cinematografica un modo di intendere la vita e la spiritualità, così come un insieme di riti e di usanze, che non percepisce più come centrali nell’esperienza del reale ma che ritiene in ogni caso fondamentali da ricordare e soprattutto da riconoscere come parte del nostro background culturale. Ed è a partire da queste considerazioni sul passato che Olmi riesce, in ogni caso, a passare dal particolare all’universale, trasmettendo ne L’albero degli zoccoli un’idea precisa nei riguardi del senso dell’esistenza umana: nell’accurato ritratto della vita e della cultura contadina bergamasca, Olmi ci insegna l’incommensurabile valore dell’umiltà e del senso di comunità, peculiarità che dovrebbero essere sempre parte del nostro relazionarci l’un con l’altro.
Daniele Sacchi