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Introduciamo CINEGAZE, una nuova rubrica dedicata ad approfondire tematiche particolari, correnti e autori di ogni epoca. In questo primo articolo si tratterà del cinema horror postmoderno. Più nello specifico, si cercherà di esaminare se si possa effettivamente parlare di una cinematografia di questo tipo e, nel caso, se vi siano degli elementi che la caratterizzano.
Individuare dei percorsi di indagine nuovi o poco esplorati nell’orizzonte del cinema di genere è sempre una grande sfida, dal momento che con il tempo è naturale che stilemi, categorizzazioni stereotipiche e tassonomie varie si affermino e diventino la norma in produzioni che ricorrono a peculiarità narrative e stilistiche comuni. Un genere come il biopic, ad esempio, sembra aver raggiunto al giorno d’oggi una sorta di cortocircuito interno, mostrandosi incapace – con qualche eccezione, certo – di andare al di là della propria struttura ormai ben consolidata, forse anche a causa del successo ricorrente al box office e del puntuale responso positivo in termini di nomination e di premi durante l’award season.
Alcuni generi, tuttavia, si dimostrano essere molto più plastici e capaci di reinventarsi continuamente nel corso del tempo, forse in virtù del fatto di non essere mai troppo al centro dell’attenzione – a differenza di altre realtà considerate come maggiormente “nobili” – e impegnandosi dunque in una lotta infinita per cercare di emergere e di legittimarsi nei confronti del pubblico. L’horror, spesso erroneamente considerato come appartenente a quel tipo di produzioni stantie incapaci di rinnovarsi, in realtà si ridefinisce e si rimodula costantemente sin dalla nascita del medium cinematografico, operando in alcuni casi in modi del tutto imprevedibili e istituendosi come uno dei generi più interessanti da osservare al giorno d’oggi. Una traccia di analisi stimolante per affrontare una discussione sul cinema horror è sicuramente una sua possibile integrazione con le specificità del cinema postmoderno.
Prima di procedere, però, è importante fare chiarezza sul fatto che il cinema postmoderno non rappresenti un periodo della storia del medium, bensì un insieme di strategie formali che possono essere individuate nel testo cinematografico, dove per testo si intendono tutti gli elementi non solo diegetici, ma anche stilistici che compongono un film. Detto ciò, il cinema postmoderno non è nemmeno da intendersi né come un movimento né come un metodo. Nessun regista, probabilmente, ammetterebbe mai in maniera consapevole di fare cinema postmoderno. In luce di tutto ciò, qualche critico del postmoderno potrebbe obiettare sull’esistenza di un cinema di questo tipo, e forse non avrebbe torto, pragmaticamente parlando. Tuttavia, in continuità con quella che è stata la riflessione filosofica attorno alla nozione di “postmoderno”, a partire dal saggio La condizione postmoderna, pubblicato nel 1979 dal filosofo e sociologo francese Jean-François Lyotard, l’esistenza di produzioni cinematografiche che veicolano i principi cardine alla base di questa precisa visione del mondo si dà come una vera e propria realtà.
I tratti caratteristici del cinema postmoderno, infatti, non fanno che ribadire ciò che sta alla base della nozione stessa di postmoderno, partendo dalla crisi del soggetto, del sapere e della conoscenza, sino ad arrivare all’incapacità di razionalizzare a dovere quanto ci circonda, affermando dunque l’impossibilità di ricondurre la frammentazione/confusione organizzativa e strutturale del mondo e dell’identità dell’uomo contemporaneo ad un intero ben definito. In termini più squisitamente cinematografici, tutto ciò si traduce nella totale perdita della linearità temporale del racconto, nell’ibridazione dei generi e in alcuni casi nel ricorso al metacinematografico e allo stratagemma della citazione. L’obiettivo è sovvertire ciò che è stabile e riconosciuto come legittimo per proporre allo spettatore un caos di immagini che cerca di riprodurre il disordine frammentario del reale, un caos irriducibile a qualsiasi forma di comprensione unitaria e che non può che passare sia da una messa in scena deviata e contorta della morale e dell’etica umana, sia dall’ironia.
Per quanto riguarda il cinema horror postmoderno, uno dei massimi esempi di film che si muove in tal senso è Scream (1996) diretto da Wes Craven e sceneggiato da Kevin Williamson. Visto che, come anticipato, il cinema postmoderno spesso si trova a scardinare l’idea complessiva di genere attraverso ibridazioni e compenetrazioni con altre realtà, è interessante notare come Scream prenda le mosse esattamente dalla volontà di riflettere sul significato degli elementi che compongono una pellicola horror. Scream non è solamente una parodia, ma un’effettiva disamina su che cosa significhi produrre nello spettatore il sentimento della paura attraverso l’artificio che è il cinema, cercando di sovvertire i canoni del genere a partire da una rilettura degli stessi. Il film di Wes Craven sfrutta la conoscenza dello spettatore delle caratteristiche e delle peculiarità tradizionali del cinema horror per mettere in moto un suo sostanziale rovesciamento ironico, in cui non c’è più bisogno di avere paura dell’immagine sullo schermo perché è l’immagine stessa a mettere lo spettatore di fronte ai meccanismi che dovrebbero generare la paura. Meccanismi che, una volta che si mostrano per quello che sono realmente, producono il sentimento inverso dell’orrore, giungendo irrimediabilmente nei territori del comico e del grottesco.
A differenza di operazioni più esplicitamente demenziali come la saga di Scary Movie, che attua un rovesciamento simile ricorrendo però alla ripresa esplicita e al rimescolamento di sequenze già ben conosciute allo spettatore, Scream si muove direttamente all’interno delle convenzioni del genere tuffandosi nell’orizzonte del cinema slasher, ispirandosi e citando esplicitamente pellicole come Halloween (1978, John Carpenter), Nightmare (1984, diretto dallo stesso Craven) e Venerdì 13 (1980, Sean S. Cunningham). Mentre seguiamo gli omicidi perpetrati dall’ormai iconico Ghostface, che opera esattamente come gli assassini dei film appena citati, l’appassionato di film horror Randy Meeks (Jamie Kennedy) cerca di mettere in guardia i suoi compagni su quelle che di norma sono le “regole” degli slasher, prevedendo di volta in volta come si comporterà Ghostface. In un certo senso, i personaggi del film di Craven sono quasi consapevoli di essere parte di un film, in quanto ne hanno compreso gli elementi costitutivi e non possono che sottomettersi al ruolo già scritto e confezionato su misura per loro. L’obiettivo di Scream pertanto è la decostruzione attiva del suo genere di riferimento, mettendo a nudo gli schemi narrativi che non dovrebbero mai emergere così palesemente ed eliminando la possibilità della paura.
A tal proposito, gli studi su come sia possibile provare sentimenti di orrore o di terrore attraverso un’opera di finzione sono molteplici. Noël Carroll, per citarne uno, nel suo celebre The Philosophy of Horror: Or, Paradoxes of the Heart, parla nello specifico di art-horror, una sensazione diversa dalla “normale” paura che nasce come reazione a qualcosa che riconosciamo come fittizio ma che, in ogni caso, riesce ad urtarci. Si tratta di un vero e proprio paradosso, il paradox of fiction: pur consapevoli di essere di fronte a qualcosa che “non esiste”, non possiamo che rimanerne colpiti in modo estremamente genuino. Il cinema horror postmoderno, pienamente consapevole della centralità dello spettatore e della necessità di un’esperienza sempre più immersiva e capace di sfruttare le possibilità fornite dalle nuove tecnologie, non si è sempre mosso con gli intenti parodistici di Scream – sebbene un film recente che prosegue per quella direzione come Quella casa nel bosco (2011), diretto da Drew Goddard e sceneggiato da Joss Whedon, appaia sicuramente come un’operazione affascinante.
Il cosiddetto “falso” found footage, o anche mockumentary, rientra a pieno titolo tra gli esempi più caratteristici del cinema horror postmoderno nella rielaborazione di quelli che sono i tópoi del genere. Il discorso sullo scontro dicotomico tra il bene e il male, sempre centrale nelle produzioni horror sin dalla nascita del medium cinematografico, perde di importanza (pur essendo spesso presente) per lasciar maggiore spazio invece alla continua compenetrazione tra i piani del reale e dell’immaginario. The Blair Witch Project (1999, Daniel Myrick e Eduardo Sánchez), Rec (2004, Jaume Balagueró e Paco Plaza), Paranormal Activity (2007, Oren Peli), Cloverfield (2008, Matt Reeves), Unfriended (2014, Levan Gabriadze) sono tutti esempi di opere che giocano sul fondare le proprie narrazioni sulla messa in scena di una presunta realtà e sul tentativo di convincere chi osserva che quanto sta visionando sullo schermo è legittimo. Lo spettatore, in sala, sa benissimo che è tutto fittizio (i tempi di Cannibal Holocaust sono ormai lontani…), ma ciò non impedisce a questi film, in virtù degli espedienti tecnici che li strutturano, di sovraccaricarsi ampiamente con l’elemento orrorifico.
Lo shock spettatoriale in questo caso non passa più per un rovesciamento ironico, ma dalla costruzione di una realtà illusoria, chiaramente artificiale, ma che si dà comunque come un simulacro del mondo. Il sentimento di orrore non viene più annullato, bensì si cerca – chi meglio, chi peggio – di amplificarne l’impatto. Un’esperienza che si muove in modo simile nel dare un grande peso alla visione in soggettiva tipica del mockumentary horror postmoderno è quella proposta oggigiorno dalla realtà virtuale. Sono ancora pochi gli esperimenti a riguardo nel medium cinematografico – si tratta soprattutto di cortometraggi o di brevi video a 360° di film già usciti (anche se per Train to Busan di Yeon Sang-ho, ad esempio, si è organizzato un vero e proprio “Tour VR”) – ma il nodo critico fondamentale è lo stesso citato in precedenza: l’annullamento di ogni barriera e confine tra reale e immaginario per lasciar spazio all’emergere di simulacri che ci appaiono come più veri della realtà stessa.
Un nuovo autore contemporaneo che nei suoi primi due film si è interrogato molto sul rapporto tra reale e immaginario è Jordan Peele. In modo diverso, chiaramente, rispetto alle opere citate sino ad ora, però è evidente come Get Out (2017) e Noi (2019) siano anch’essi due tentativi di sovvertire e di decostruire a modo loro il loro genere di appartenenza. Non è un caso che lo stesso Peele descriva il suo primo film, in Get Out: The Complete Annotated Screenplay, come uno «Scream for black people». In un lucido racconto allegorico, Jordan Peele risemantizza attraverso la finzione l’orrore reale percepito da una parte della popolazione americana. L’horror di Get Out non scaturisce dal film, bensì dalla realtà stessa. Non sono più le immagini su schermo a farci paura, ma ciò che rappresentano nella nostra quotidianità. Get Out, come Scream, annulla la paura, ma non perché non è presente, bensì perché è già radicata nel tessuto sociale del contemporaneo. Non possiamo più spaventarci perché abbiamo già paura. In Noi il discorso viene portato avanti ulteriormente attraverso il concetto del doppelgänger, costruendo tutta l’impalcatura narrativa del film sull’ambiguità tra ciò che è visibile e ciò che è invece nascosto, sepolto nel sottosuolo ma ben consapevole della necessità di un intervento che possa destabilizzare e sconvolgere i valori e le certezze di chi crede di essere al sicuro in virtù della sua posizione privilegiata nel mondo, ribadendo quella frammentarietà sociale, economica e anche politica che il cinema postmoderno spesso si trova a tematizzare.
Su binari simili si muove anche Jennifer Kent con il suo The Babadook (2014), un tentativo di ripensare il rapporto tra una madre e il figlio attraverso percorsi narrativi che infrangono le barriere del cinema horror classico, riposizionando il ruolo della donna all’interno dei confini del genere. Cinema di allegorie è anche quello di Ari Aster e di Robert Eggers, nuovi maestri dell’horror contemporaneo, due figure che si allontano dalle peculiarità maggiormente caratterizzanti il cinema postmoderno pur conservandone un’eco nella forma del rimando e del puro citazionismo. Hereditary (2018) e Midsommar (2019), di fatto, si propongono come delle rielaborazioni estremamente originali, rispettivamente, di Rosemary’s Baby (1968, Roman Polański) e di The Wicker Man (1973, Robin Hardy), mentre in The Witch (2015) e in The Lighthouse (2019) troviamo un dialogo serrato con i miti e il folklore dal New England seicentesco nel primo, con la mitologia greca, Coleridge e Melville nel secondo. Rivisitazione, rilettura, reinterpretazione: uno sguardo teso verso il passato che rifugge da qualsiasi forma di nostalgia per dedicarsi alla produzione del nuovo e per proiettarsi verso territori cinematografici imprevedibili e inesplorati.
Daniele Sacchi
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