Con A Ghost Story – Storia di un fantasma (2017), il regista e sceneggiatore statunitense David Lowery ha realizzato quello che potremmo definire come un intenso saggio visuale sull’esperienza del lutto e della perdita. La surreale e malinconica storia di fantasmi messa in scena da Lowery attua questo tipo di operazione ricorrendo per lo sviluppo del suo intreccio a due punti di vista tanto opposti quanto complementari, offrendo allo spettatore l’opportunità di immedesimarsi con lo sguardo di chi è ancora qui, ma anche, e soprattutto, con lo sguardo di chi non c’è più.
Nel film, a tal proposito, ci viene permesso di esplorare il dolore provato da una giovane ragazza (Rooney Mara) in seguito alla perdita del marito, che tuttavia non l’ha abbandonata ma è ancora presente nella sua abitazione, sebbene invisibile, in quanto fantasma (Casey Affleck). Quest’ultimo, che a livello rappresentativo indossa ancora il lenzuolo che ricopriva il suo cadavere, richiamando pertanto un’iconografia dello spettro antica e che ormai da secoli si è impressa nell’immaginario collettivo, non sembra voler abbandonare il mondo terreno, ancorato alla materialità e al sentimento per la persona amata.
Per caratterizzare al meglio la fantasmaticità del personaggio interpretato da Affleck, David Lowery ha adottato la particolare scelta tecnica di girare le scene che lo riguardano ricorrendo ad un framerate più alto (33 fps) rispetto al resto del film, che invece è girato secondo la misura standard dei 24 fps. Attraverso un lavoro di compositing dell’immagine cinematografica pertanto, al fantasma viene donata artificialmente un’andatura surreale ed eterea, che rispecchia la sua stessa esistenza in una dimensione parallela e distorta, soprattutto sul piano temporale. Come si rende d’altronde evidente nella seconda parte del film, la temporalità propria della realtà del fantasma è incerta e non definita e sembra intrappolarlo in un loop anti-teleologico dal quale non sembra esserci via di uscita, se non attraverso la sua volontà stessa.
Allo stesso tempo, il rapporto d’aspetto 1,33:1 combinato con una cornice in stile vignettistico che attribuisce alle immagini del film un’atmosfera da fotografia d’altri tempi, contribuiscono a rendere il tono retrò di A Ghost Story claustrofobico quanto basta per enfatizzare a dovere la tragicità dei fatti che racconta. In particolar modo, Lowery riesce a mettere a nudo il dolore della moglie del fantasma a più riprese, come esemplificato da un long take che la vede ingurgitare una torta intera per cercare di riempire inutilmente il vuoto incolmabile che la sua perdita le ha lasciato. In tal senso, A Ghost Story riesce a darsi come una vera e propria indagine introspettiva su quel profondo disagio che è la morte, un evento che riguarda ogni essere vivente ma che viene vissuto pienamente nella sua terribile realtà e consapevolezza solo dagli esseri umani, senza tuttavia dimenticare la necessaria esigenza di trovare un dopo, un futuro, una ripartenza, un nuovo inizio: quella peculiarità che il fantasma, colpito da una morte improvvisa che lo ha lasciato accecato dal desiderio di restare con l’amata, irrimediabilmente legato alla materia, sembra perlomeno inizialmente non voler accettare.
David Lowery pertanto dimostra con A Ghost Story, dopo lavori come Senza santi in paradiso (2013) e il disneyano Il drago invisibile (2016), di essere un autore estremamente eclettico e versatile, capace di sapersi adattare a stili e registri completamente diversi l’un con l’altro, con l’ulteriore valore aggiunto di riuscire a non apparire attraverso le sue storie e attraverso la sua messa in scena mai banale o scontato. Ma soprattutto, è un autore che si è dimostrato in grado di narrare in modo estremamente personale alcune delle sfaccettature più intime e inespresse dell’animo umano, trasformandole in pura immagine e racconto.
Daniele Sacchi