«Tebe dalle sette porte, chi la costruì?» con questa citazione brechtiana si apre Il formaggio e i vermi, saggio di Carlo Ginzburg del 1976 che offre uno dei primi approcci allo studio sistematico e accademico della storia subalterna, aprendo la strada alla storiografia “dal basso”. Non furono i re a costruire Tebe dalle sette porte, non fu Federico II a vincere la guerra dei Sette Anni: furono i suoi soldati a farlo. Eppure, sfogliando i manuali di storia, non si trovano i loro nomi. Proprio su questo si basa l’interesse di molti – Alberto Fasulo tra gli altri – verso la vicenda di Menocchio, mugnaio di Montereale con una cosmogonia molto personale, frutto dell’osservazione del mondo e della sua rielaborazione. Menocchio mette paura al tribunale dell’Inquisizione che vuole impedire alle sue idee di diffondersi, processandolo due volte a distanza di anni.
La concezione del mugnaio di Dio e della sua presenza nel mondo è chiara fin dalla prima sequenza del film Menocchio: Dio è tutto ed è in tutto, nella natura, nell’aria, nella nascita di un vitello, faticosa e scandita dal ritmo del respiro affannato della madre. Il film si apre nell’oscurità di una stalla e la parabola di Menocchio è segnata da un graduale – quasi dantesco – procedere verso la luce. Nel carcere dove l’uomo è tenuto mentre i suoi inquisitori attendono che lui abiuri, la luce è solo quella di una candela, unica flebile testimone. L’illuminazione è totale solo in presenza dei monaci. Il mugnaio resta dunque nell’ombra e a dargli luce sono i suoi stessi inquisitori che attraverso le carte del processo fanno arrivare il suo nome, uno tra i tanti, al regista, e da questi a noi. La sua rivendicazione del diritto al dissenso, la lotta per l’affermazione della propria identità, le istanze che volevano essere messe a tacere dall’Inquisizione, paradossalmente arrivano a noi grazie all’Inquisizione stessa.
La polarizzazione dei personaggi e la loro rispettiva rappresentazione è chiara: da una parte la famiglia di Menocchio e gli abitanti di Montereale sono ripresi singolarmente, intimoriti, parlano solo quando interrogati, si rivelano in dialetto, la semplicità dei loro volti è facile da decifrare. Il registro cambia su Menocchio, seguito dalla camera nel suo instabile movimento. Si innesca così un continuo gioco di fuoco/sfuoco che sfida lo spettatore a mantenere l’equilibrio, seguendo il mugnaio in tutto il suo dinamismo, riflesso della sua irrequietezza interiore. Dall’altro lato gli inquisitori hanno visi dai tratti severi e spiacevoli, una monade ripresa collettivamente e staticamente, la gravitas dell’istituzione ecclesiastica e la solennità di un processo inquisitorio sono palpabili.
L’attenzione sui volti e sui loro dettagli conferisce grande intensità agli stati d’animo, l’illuminazione del viso e il gioco chiaroscurale richiama da lontano la pittura fiamminga, le figure dei dipinti di Vermeer e di Brueghel il Vecchio.
Menocchio si presenta come il figlio di Giuseppe e Maria – ironicamente, quasi un Cristo destinato al sacrificio? – e durante il processo il suo volto si sovrappone per un breve istante all’immagine di una colomba, la sua innocenza è sotto accusa. Mostrandoci una storia ambientata in un tempo distante, Fasulo rivendica oggi il diritto a una presa di posizione diversa da quella imposta dalla cultura ufficiale e ben rappresenta il potere di una mente critica, che mostra coraggio nell’afferrare il frutto del libero pensiero: «se ci uccidono vuol dire che hanno più paura loro di noi».
Chiara Passoni