“Alì ha gli occhi azzurri” di Claudio Giovannesi – Recensione

Alì ha gli occhi azzurri

«Al centro di ogni mio film c’è il personaggio, la sua formazione e trasformazione. Amo raccontare gli adolescenti perché sono i personaggi in cui trovo l’amoralità virtuosa che cerco, priva di ogni forma di giudizio.» Così Claudio Giovannesi spiega ciò che accomuna i protagonisti dei suoi tre ultimi lavori: La paranza dei bambini, Fiore, Alì ha gli occhi azzurri. Nei tre film il regista tratteggia i conflitti vissuti dai suoi giovani protagonisti senza indulgere nella polemica sociale e in facili moralismi. Nader, Fiore e i ragazzi del Rione Sanità di Napoli si muovono in realtà marginali che vengono da loro attraversate con consapevolezza, guidati da sentimenti intensi e istinti che prendono il sopravvento con prepotenza.

Nader cammina precariamente sul confine – labile ma presente – che separa le sue due identità: quella italiana e quella egiziana. Lo spettatore lo incontra nel momento in cui perde l’equilibrio, la caduta è segnata da una scansione temporale precisa e cadenzata che corrisponde alla settimana in cui il ragazzo lascia la propria casa a seguito di un rifiuto da parte dei genitori, musulmani osservanti, di accettare la sua relazione con una ragazza italiana, Brigitte. La sua è una quotidianità connotata da forti conflitti che si articolano su molteplici livelli – interiore, personale, sociale – e che il giovane vive con quella amoralità cui accenna il regista: nella sequenza iniziale di Alì ha gli occhi azzurri Nader e il suo più caro amico, Stefano, si avviano verso scuola con naturalezza dopo aver rapinato un negozio; prendono un treno e trascorrono il pomeriggio a giocare e ridere con altrettanta spontaneità poco dopo aver accoltellato un ragazzo. Con il trascorrere del tempo la durata delle giornate si dilata. La rappresentazione del primo giorno, il sabato, si risolve in poche scene, quella dei giorni successivi è gradualmente più articolata. Il susseguirsi degli eventi evidenzia le difficoltà e le contraddizioni del periodo che Nader sta attraversando, e che aumentano con l’accrescere della distanza tra il ragazzo e la sua famiglia.

Alì ha gli occhi azzurri

Nader non ha gli occhi azzurri, le lenti colorate sono presto rimosse e con queste la volontà di assimilazione ad ogni costo. Si ribaltano così le dinamiche di cui è stato vittima, Nader assume la prospettiva dei genitori stessi e dà origine al conflitto con l’amico Stefano, che vuole punire: la sorella di Nader non può avere una relazione con lui. L’opposizione del ragazzo a questo rapporto porta a un punto di rottura nell’amicizia, filo narrativo principale del film, ponendo al contempo lo spettatore di fronte a una questione la cui risposta non è semplice né immediata: è possibile allontanarsi dalla propria cultura d’origine o raggiungere un compromesso tra la cultura di origine e quella di arrivo?

Alì ha gli occhi azzurri attinge a piene mani da situazioni reali vissute da Nader Sarhan, partecipe del processo creativo di scrittura e interprete principale del film, per questo in grado di restituire un’autenticità altrimenti difficile da mettere a fuoco con tanta accuratezza. In quest’opera di formazione la centralità è affidata a un personaggio in crescita che si mostra risoluto e deciso e che al contempo manifesta le insicurezze tipiche di un’età incerta, muovendosi nella cornice della desolazione della provincia laziale. Tale tendenza alla caratterizzazione dell’adolescenza in questo contesto sociologico e geografico affonda le sue radici in quei Ragazzi di vita pasoliniani che hanno ispirato opere documentaristiche come Ignoti alla città (1958) o ancora La Canta delle Marane (1961) di Cecilia Mangini. Questa analisi senza retorica sulla complessità dell’identità e della crescita si inserisce in un filone ancora oggi molto prolifico che negli ultimi anni ha suscitato l’interesse di molti registi, basti pensare al successo di La terra dell’abbastanza dei fratelli D’Innocenzo o di Manuel di Dario Albertini.

Chiara Passoni