La filmografia dedicata alla seconda guerra mondiale è sterminata e incredibilmente variegata, sia da un punto di vista di prospettive sia in termini stilistici nei confronti delle infinite possibilità espressive offerte dal medium cinematografico. Sono poche, però, le pellicole che hanno saputo trasmettere quel sentimento di orrore inenarrabile costitutivo della guerra e delle sue conseguenze sull’uomo, talmente immenso da risultare indescrivibile, con la stessa efficacia del capolavoro di Ėlem Klimov, Va’ e vedi (Idí i smotrí, 1985). È lo sguardo di un adolescente, Fljora, a guidare lo spettatore nella Bielorussia occupata dalle forze militari naziste, dando così forma ad una visione dell’evento bellico puramente soggettiva, necessariamente filtrata attraverso i suoi occhi.
Va’ e vedi, dunque, non è solo un’opera di testimonianza storica, bensì è un film che contiene anche un preciso discorso sull’immagine cinematografica che emerge dalla specificità del singolare punto di vista del suo protagonista. Una delle chiavi per comprendere l’operazione concettuale attuata da Klimov è sicuramente individuabile, ad esempio, nella folgorante sequenza conclusiva dell’opera. Dopo aver fucilato un gruppo di soldati nazisti e alcuni collaborazionisti locali, il gruppo di partigiani di cui fa parte Fljora si rimette in marcia, ma il ragazzo rimane momentaneamente indietro. Di fronte a lui, in una pozzanghera, il ritratto di Adolf Hitler. Il ragazzo imbraccia il fucile, lo punta direttamente verso la macchina da presa e spara verso il ritratto, più e più volte. Tra un colpo e l’altro, Klimov ci mostra alcuni frammenti di vita di Hitler – una serie di filmati d’archivio – montati però in reverse: nel delirio soggettivo di Fljora, la Storia si riavvolge. Non vi è nessuna guerra, Hitler non sale al potere e ritorna ad essere un neonato tra le braccia di sua madre.
La furia iconoclasta di Fljora, però, termina qui. Nella sua visione, il ragazzo “risparmia” Hitler, posa il fucile e riprende a marciare con i suoi compagni. Uccidi Hitler era il titolo pensato inizialmente per il film secondo le intenzioni originarie di Ėlem Klimov e del co-sceneggiatore Ales Adamovich, dalle cui esperienze personali di guerra è tratto in parte l’intreccio. Eppure, Fljora non riesce a concludere questa forma di vendetta e di uccisione simbolica verso l’artefice di tutto il male che ha vissuto sino a quel preciso istante. Si tratta, forse, di un tentativo da parte del ragazzo di preservare la sua umanità? Di cercare di mantenere un certo distacco e integrità rifiutando il desiderio intrinseco dell’essere umano di voler prevaricare sull’alterità? O, più semplicemente: perché dovrebbe uccidere un bambino come lui?
È interessante notare in tal senso come i sottotesti esistenzialisti di Va’ e vedi si presentino nel corso del film attraverso sequenze incredibilmente evocative che hanno però come obiettivo quello di urtare la sensibilità spettatoriale. È un modo di fare cinema molto diverso rispetto a quanto possiamo trovare, ad esempio, in un’opera come L’infanzia di Ivan (Ivanovo detstvo, 1964) di Andrej Tarkovskij, tematicamente affine ma di impostazione molto differente. Anche Tarkovskij ci mostra la progressiva perdita di innocenza di un bambino durante il secondo conflitto mondiale, ma il registro visivo si muove soprattutto sui binari di un certo lirismo onirico che in Va’ e vedi è invece assente. L’immagine cinematografica, ne L’infanzia di Ivan, è sospesa in un orizzonte duplice, tesa tra la dimensione del sogno – capace di cristallizzare proprio l’innocenza perduta di Ivan – e la crudeltà del reale.
In Va’ e vedi, Klimov sembra intenzionato maggiormente a produrre un’esperienza di acuta destabilizzazione visiva che passa sia dal grottesco di alcune situazioni, talvolta enfatizzato anche dalla manipolazione del sonoro (come nella scena del ballo di Glaša), sia dalla pura esibizione dell’orrore, spesso mostrato direttamente e in altri casi invece solamente suggerito. Pensiamo, per quest’ultimo caso, al ritorno a casa di Fljora. Il villaggio è deserto, la casa di famiglia è piena di mosche. Il ragazzo si allontana insieme a Glaša, convinto che la sua famiglia si stia nascondendo nelle vicinanze. Mentre i due corrono, Klimov passa dalla dimensione soggettiva del protagonista a quella di Glaša: la ragazza si volta e, per un breve istante, nota i corpi senza vita degli abitanti del villaggio accatastati contro il muro di un’abitazione. Lo spettatore non ha il tempo per razionalizzare, perché in ogni caso non vi sarebbe alcuna possibilità e spazio per poterlo fare: non può che assistere, inerme come Fljora nella brutale sequenza del fienile, al manifestarsi dell’insensatezza delle azioni umane.
Una riflessione opposta può essere svolta in parallelo nei riguardi de L’ascesa (Voskhozhdeniye, 1977) di Larisa Šepit’ko, moglie tra l’altro dello stesso Klimov. Anche ne L’ascesa ci ritroviamo nel contesto della Bielorussia occupata e l’intreccio – ispirato al romanzo Sotnikov di Vasil Bykov – segue nello specifico la cattura, la prigionia e la tortura di due partigiani sovietici da parte dei soldati nazisti. L’intero peso dell’intensità drammatica dell’opera, similmente a Va’ e vedi, viene scaricato sul personaggio di Sotnikov, fermamente convinto nel non voler rivelare la posizione e la composizione del suo gruppo, trasformando la propria figura in un effettivo martire dalle connotazioni cristologiche. Sia nello stile sia nelle intenzioni, il percorso tracciato da Šepit’ko si muove però verso una direzione più spirituale ed introspettiva, con una minore preoccupazione nello sviscerare le pulsioni prevaricatorie dell’essere umano favorendo invece la rappresentazione di una forma di libertà individuale, morale e dello spirito che Sotnikov, a differenza del suo compagno, riesce a rendere reale per se stesso attraverso le sue scelte.
Un’opera recente, invece, dichiaratamente ispirata a Va’ e vedi è The Painted Bird (Nabarvené Ptáče, 2019, qui il trailer) del regista ceco Václav Marhoul, che vede figurare nel cast anche l’interprete di Fljora, Aleksej Kravchenko. Anche qui abbiamo un bambino e il suo personale percorso di incontro/scontro con la guerra e la morte, ma a differenza del film di Klimov, Marhoul gioca molto apertamente con lo shock value. Il tentativo di ritornare a casa da parte del silenzioso protagonista appare quasi come una scalata – o, meglio, come una vera e propria discesa nell’inferno – che, di sequenza in sequenza, ci conduce ad una violenza via via sempre più efferata, dettagliata, provocatoria: l’orrore riempie lo schermo continuamente, sino a renderne insopportabile fisicamente la visione.
L’operazione attuata da Marhoul è, nel complesso, molto lontana da quella di Klimov, sebbene sia capace però di riprenderne la riflessione centrale sulla condizione umana. Si tratta sempre di una riflessione che si muove a partire dall’immagine cinematografica ma che, in questo caso, viene centralizzata più concretamente sul tema dell’odio verso l’altro. The Painted Bird non è, infatti, un racconto di un’innocenza perduta, bensì la messa in scena dell’impossibilità di ogni forma di innocenza e purezza in un mondo in cui uno dei mantra più diffusi sembra darsi nella forma di un’oppressione nei confronti dell’alterità. Nel finale, però, Marhoul sembra volerci suggerire un’apertura e una ricomposizione, un’eventualità che in Va’ e vedi, invece, era impossibile: Fljora, dopo aver preso una posizione nei confronti del dilemma hitleriano, è infatti costretto ad andare al fronte e a continuare a combattere. L’esperienza dello spettatore si conclude ma, al di là dei confini dello schermo cinematografico, l’orrore continua.
Daniele Sacchi
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