Sono passati 14 anni dall’uscita del primo capitolo della tetralogia Rebuild di Hideaki Anno dedicata a riesplorare, rileggere e risemantizzare il suo capolavoro Neon Genesis Evangelion e finalmente, oggi, possiamo vederne e apprezzarne il proficuo e liberatorio punto di arrivo. Evangelion: 3.0+1.0 Thrice Upon a Time è esattamente questo, il compimento di un percorso iniziato in realtà ben prima dell’operazione Rebuild, sin dalla serie originale e dal complementare The End of Evangelion. E parliamoci chiaro, l’ultimo film di Anno non ha nulla da invidiare né ai kolossal hollywoodiani, da un punto di vista produttivo, né al miglior cinema d’autore, se vogliamo invece ragionare in termini qualitativi. Il regista giapponese torna dopo la “pausa” di Shin Godzilla (2016) a dialogare con se stesso e ad affrontare i suoi demoni interiori, riuscendo allo stesso tempo a ridefinire nuovamente la sua creatura con una rinnovata creatività.
Evangelion: 3.0+1.0 prende le mosse dall’immaginario tracciato dal precedente Evangelion: 3.0 You Can (Not) Redo – il quale si discostava ampiamente dalla serie, sia per narrazione sia per estetica – ma questa volta senza lasciar da parte completamente il passato, tornando a centralizzare maggiormente le vicende sul mondo interiore di Shinji, sul rapporto con il padre e, in generale, sulle relazioni interpersonali tra i personaggi. Il primo atto, in particolare, sembra quasi rappresentare un parziale ritorno a casa, prima con una roboante sequenza action sopra i cieli di Parigi, e poi con uno splendido affresco sulla vita quotidiana del Villaggio-3, permettendoci di rientrare in contatto con alcune vecchie conoscenze e di ristabilire progressivamente un equilibrio, perlomeno apparente, tra i protagonisti del film. I momenti da slice of life nel Villaggio-3, in particolare, rappresentano una piccola oasi di pace e di nostalgia che, in pieno stile Evangelion, non può durare a lungo, ma è un piacere vedere l’attenzione mostrata da Anno nel voler ristabilire una connessione direttamente su schermo tra i personaggi della sua opera, specialmente dopo che il time skip del capitolo precedente aveva riconfigurato ogni dinamica off-screen.
Se da un lato Evangelion: 3.0+1.0, in quanto conclusione ideale del franchise, non può esimersi da rivolgere uno sguardo al passato, dall’altro lato è anche e soprattutto affermazione del nuovo. Tutti i nodi narrativi principali lasciati aperti dai Rebuild precedenti vengono chiusi o rivestiti di significati imprevisti – pensiamo, ad esempio, alla brillante contestualizzazione di un personaggio in precedenza vago ed impalpabile come Mari – con Hideaki Anno che non decide di adagiarsi sul conosciuto e, anzi, specialmente nell’atto conclusivo del film, non ha paura di inoltrarsi in territori inesplorati. In particolare, il rapporto tra Shinji e Gendo non è mai stato indagato con così tanta minuziosità, portandoci peraltro a rivedere la figura di Anno sia nei monologhi di uno sia in quelli dell’altro, in un vero e proprio transfert esistenziale che mette a confronto due facce della stessa medaglia, un processo da reinterpretare però come uno scontro tra istanze che sono in realtà frutto di un singolo individuo, l’autore.
In tutto questo, Anno alla fine ha scelto il suo ruolo, ha preso una posizione precisa, ha trovato una propria armonia. D’altronde, sono passati più di vent’anni dalla conclusione originale e aspettarsi le medesime considerazioni di The End of Evangelion non aveva alcun senso. Pur nell’operazione decostruttiva dei Rebuild, dunque, Evangelion: 3.0+1.0 sovverte a sua volta lo spazio della sua cornice di riferimento, ne piega l’ossatura e ci porta a riconsiderare tutto ciò che abbiamo già esperito in precedenza nell’universo di Evangelion con una diversa predisposizione e attitudine. Tutto questo corroborato da una regia e da una direzione artistica impeccabili, in grado di rinvigorire l’immaginario dell’intero franchise con sequenze al cardiopalma, rimandi espliciti ed impliciti (da Ultraman a Nadia), incursioni nel metacinematografico, punti di equilibrio e di rottura. La conclusione perfetta, insomma, per una saga immortale.
Daniele Sacchi