La dimensione osservativa e quella poetica del documentario si uniscono sapientemente nei film di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti dando forma a un discorso che, nel corso degli anni e con l’arricchirsi della loro filmografia, ha indagato il genius loci di luoghi comuni, soffermandosi sulle loro crepe inaspettate. Ecco dunque che, alla stregua del grande documentarista osservativo Frederick Wiseman, D’Anolfi e Parenti si immergono in una realtà e testimoniano la vita al suo interno senza intervenire o interagire con essa. L’impianto narrativo e stilistico dei documentari dei due registi si presenta infatti come evoluzione ed efficace sintesi tra il direct cinema e il cine-vérité. Se da un lato i registi riducono la troupe di ripresa al minimo (solo due persone: Massimo D’Anolfi si dedica delle riprese video e Martina Parenti all’audio in presa diretta) per ricreare l’effetto “mosca sul muro”, evitando qualsiasi commento extra-diegetico e prediligendo un montaggio dal ritmo dilatato, dall’altro lato la coppia mostra una grande consapevolezza nei confronti dell’aspetto catalizzatore della loro presenza all’interno del quadro che descrivono. I due registi non hanno la pretesa di affermare che il film possa rappresentare con fedeltà il reale senza alterarlo e provocare reazioni inaspettate. Il loro ruolo è al tempo stesso quello di osservatori e provocatori della realtà catturata.
I registi descrivono così ne Il Castello (2011) l’aeroporto di Malpensa, in Materia Oscura (2013) la base militare sarda di Salto di Quirra e in L’infinita fabbrica del Duomo (2015) l’apparato che sostiene la cattedrale del Duomo di Milano, soffermandosi – con l’incedere lento e la fissità delle inquadrature che caratterizzano la loro regia – sugli aspetti e sui dettagli che a uno sguardo distratto passerebbero inosservati. Sono tali dettagli a permettere alla coppia di entrare in completa sintonia con la vita del luogo, che subisce una vera e propria metamorfosi sotto lo sguardo dello spettatore, mutando gradualmente con l’avanzare della narrazione. È innegabile che da Spira Mirabilis (2016), documentario che utilizza cinque soggetti legati agli elementi naturali come punto di partenza per esplorare il concetto di immortalità, i registi abbiano intrapreso un percorso ancora più sperimentale, dedicando la loro opera a veri e propri film-saggio. D’Anolfi e Parenti oltrepassano dunque l’indagine sul luogo fisico per approfondire temi complessi ricorrendo a stilemi e narrazioni che si articolano su molteplici livelli, in un fitto gioco di rimandi tra opere e argomenti.
In Guerra e pace (2020), presentato alla 77° Mostra d’arte cinematografica di Venezia e candidato per il premio Orizzonti al miglior film, i due registi approcciano la tematica della guerra ricorrendo alla chiave di lettura che è loro più familiare: il cinema e l’immagine in movimento. L’idea di produrre il film scaturisce da una riflessione sulle istituzioni europee e da un interrogativo sullo scopo attuale dell’attività diplomatica, che pare ormai svuotata dal suo senso originale. Guerra e pace è stato girato nel corso di quattro anni ed è chiaro fin dai primi minuti di visione quanto, rispetto alla dichiarazione di intenti iniziale, i registi abbiano modificato il loro approccio al soggetto e all’identità del progetto, rendendolo un’indagine dai connotati più ampi e universali. Il film si apre sull’archivio cinematografico dell’Adamello, alternando le immagini del restauro di alcune bobine in un ambiente freddo e asettico, quasi da laboratorio, alla crudezza dei filmati di Luca Comerio dell’invasione italiana della Libia del 1911, prima guerra a essere documentata su pellicola.
Nel primo capitolo del film, Passato Remoto, le immagini sono accompagnate da voci che rendono espliciti gli accostamenti, il legame tra ieri e oggi, il passato coloniale e le sue conseguenze socio-economiche, attraverso un commento sulla situazione libica contemporanea che tocca tematiche attuali come gli sbarchi e la gestione dei flussi energetici. Il ricorso ai film della campagna di Libia svela un cinema delle origini già molto consapevole del suo potenziale rappresentativo, che non mostra simulazioni ma situazioni reali di guerra mediate dallo sguardo colonialista del vincitore, dedicando sequenze intere alla tensione della marcia, al dolore sui volti, all’indifferenza e all’offesa dei diritti delle popolazioni locali sconfitte. Si tratta di una scenografia definita crudele dalla voce degli studiosi che commentano le immagini facendo da chiara eco al pensiero dei registi, e un cinema feroce che taglia (tanto in montaggio quanto metaforicamente) e ferisce. Il film tuttavia non prosegue – come ci si potrebbe aspettare – su altre immagini di guerra. Avanza invece come una riflessione sulle modalità del cinema di racconto della guerra, scomponendo la realtà per creare diverse combinazioni di senso possibili, accostando immagini distanti tra loro in un linguaggio sperimentale che dimostra le infinite possibilità del mezzo cinematografico.
Il capitolo Passato Prossimo si apre su una bandiera europea consumata – difficile credere che nelle menti dei registi non lo sia anche figurativamente –, la stoffa è logora e ormai da sostituire, due impiegati valutano quali bandiere siano da tenere e quali da sostituire. Ci troviamo all’Unità di Crisi del Ministero degli Esteri, un presidio di pace che fornisce assistenza agli italiani in situazioni di rischio all’estero. Il contesto risulta però distante e estraneo agli effettivi pericoli vissuti dalle persone in Siria, in Libia, in Somalia e nei Paesi con cui i funzionari dell’ufficio interagiscono, indicati da spersonalizzanti simboli e icone all’interno di mappe disegnate sugli schermi dei computer. Sono molte le riprese di ambienti asettici, videosorvegliati, sicuri, delle sculture di Arnaldo Pomodoro e delle numerose opere d’arte. Le immagini di esplosioni e rapimenti vengono riprese attraverso i vetri di finestre perfettamente pulite, sono solo un lontano riflesso di tutto l’orrore che si sta scatenando a Mogadiscio o nel Kurdistan. Anche in questi presidi la guerra è onnipresente, arginata solo momentaneamente dalla pace che la contiene così come il fotogramma che la immortala, una breve fase di stallo tra una guerra e l’altra.
Il terzo capitolo è incentrato sul Presente, ambientato in Francia, all’ECPAD – l’Agenzia della Immagini del Ministero della Difesa Francese – istituzione in cui giovani fotografi studiano le immagini di guerra per poterle in seguito scattare sul campo. Allo stesso tempo, alcuni cadetti si preparano alla guerra attraverso duri allenamenti fisici. D’Anolfi e Parenti ci portano all’interno delle classi in cui si analizzano soggettivamente e oggettivamente immagini di guerra rapportandole al contesto culturale, si studia la rappresentazione delle battaglie nella storia dell’arte, e si parla con distacco della struttura, della divisione e della composizione di foto che rappresentano cadaveri che giacciono al suolo. Mentre si analizzano gli effetti della guerra, i cadetti si addestrano e si impegnano in simulazioni di operazioni militari che verranno a loro volta documentate e fotografate, l’ironia di questo ciclo continuo è sottile ma ben presente. Anche all’ECPAD l’archivio fotografico assume un ruolo importante. Tornano così le bobine, lo studio della guerra attraverso le immagini che ci ha accompagnato dal primo capitolo, dall’archivio dell’Adamello, rapportato poi alla contemporaneità all’Unità di Crisi del Ministero degli Esteri.
In ogni capitolo c’è quindi una distanza tra i soggetti protagonisti al centro dei distinti filoni narrativi, che procedono su binari paralleli e che seppure distanti in un sistema chiaramente polarizzato sono al contempo intimamente legati: l’archivio dell’Adamello e il repertorio di immagini in esso conservate, l’Unità di Crisi e i Paesi che ricevono assistenza dai suoi operatori, gli studenti di fotografia e i cadetti che si addestrano per la guerra.
Infine, il capitolo conclusivo del documentario riguarda il Futuro, ed è la summa del discorso condotto finora. Il quesito iniziale del film ruota intorno allo scopo della conservazione delle immagini. Perché custodirle con cura se non servono a trovare la pace? La risposta è illustrata proprio dalle sequenze finali del film, ambientate alla Cinémathèque Suisse, dove la Croce Rossa internazionale conserva il suo archivio. Le immagini di alcuni sopravvissuti alla Shoah immortalati nel racconto della loro esperienza di deportazione, prigionia e liberazione vengono proiettate su pile di bobine. Queste ultime custodiscono a loro volta immagini che in un futuro si riveleranno altrettanto preziose, ed è la proiezione a esplicarne il senso. Si tratta di una conclusione dal forte impatto simbolico: lo scopo della salvaguardia delle immagini risiede nel valore della testimonianza diretta e nella sua trasmissione, le immagini sopravvivranno alle vittime e ai carnefici. Di fronte al dilemma sulle modalità di contenimento delle situazioni di guerra i due registi trovano una soluzione (o una forma di sollievo) nell’arte, e più nello specifico nel cinema:
Crediamo che oggi più che mai sia necessario ripensare agli strumenti che prevengono, limitano, contengono i conflitti in favore del dialogo tra uomini e istituzioni. […] Abbiamo dunque deciso di riflettere sulle immagini del passato e del presente non solo come strumento di guerra, ma anche come possibile strumento di pace. (cfr.)
È nell’ambito della loro evoluzione poetico-sperimentale che Massimo D’Anolfi e Martina Parenti con Guerra e pace decidono di conferire una maggiore ricchezza all’aspetto sonoro. I due integrano la grande cura nella presa diretta dell’audio ambiente, che sta alla base dei loro documentari, con l’aggiunta di suoni artificiali slegati dalla scena rappresentata e che talvolta risultano stridenti e stranianti, come a costante promemoria della distanza tra il documentario e il reale, e l’impossibilità di quest’ultimo di essere rappresentato. Inoltre, i brani musicali sono più presenti e frequenti rispetto alle opere passate. Guerra e pace rifugge la più tradizionale drammaturgia legata alla guerra, decidendo di mostrarla direttamente e indirettamente, alternandola ai luoghi di pace che mantengono un costante legame con essa. Così facendo, il film traccia anche una storia del cinema, dell’arte, della fruizione delle immagini e della loro analisi, esplicitando lo scarto tra le modalità di ripresa e le prospettive passate e quelle contemporanee, mostrando un’evoluzione e forse persino un’assuefazione alle immagini di guerra. Il documentario si addentra in un’analisi meta-cinematografica, riflettendo sulle modalità di racconto del cinema e mostrandone le infinite potenzialità rappresentative, in un racconto guidato da una precisa consapevolezza, esemplificata dalle parole dello stesso D’Anolfi:
Il cinema è un’arte giovane e quindi ancora inesplorata, non si tratta solo di intrattenimento, di consolazione, di identificazione e di mimesi, si tratta piuttosto di inventare un nuovo linguaggio.
Chiara Passoni