Elephant, l’elefante nella stanza: una verità sotto gli occhi di tutti, ma che per quanto possa essere chiara ed identificabile non viene riconosciuta come tale o viene estremamente minimizzata. Così, Gus Van Sant decide di chiamare il suo capolavoro del 2003 dedicato alla strage della Columbine High School, verificatasi nel 1999 vicino a Denver, con un sottile riferimento all’espressione inglese “the elephant in the room”, trasformando un’analogia già di per sé abbastanza elaborata sui processi di determinazione di alcune specifiche dinamiche sociali in un’ulteriore metafora su alcuni dei problemi più grandi degli Stati Uniti e in generale dell’occidente: dalla libera vendita delle armi e le sue conseguenze sulla società, sino ad arrivare a quell’insieme di problematiche giovanili che spesso vengono taciute o ignorate.
In tal senso, Elephant riprende il massacro della Columbine come sua ispirazione principale ma non ambisce ad esserne un commento fedele. Invece, il film di Van Sant ricerca nel tragico episodio un significato che a partire dal particolare possa ergersi all’universale. L’operazione è un successo: in un crescendo di tensione, Elephant presenta delle situazioni riconoscibili, dipingendo un ambiente scolastico verosimile con le sue criticità e le sue contraddizioni, e si sofferma soprattutto sul tratteggiare le personalità dei due personaggi centrali dell’opera, Alex ed Eric.
I due giovani killers sono intenzionati a compiere un massacro nella loro scuola. I motivi che li conducono ad una scelta così estrema non vengono mai resi espliciti. L’enfasi, invece, viene posta sull’efferatezza e la brutalità dell’atto distruttivo in sé, che giunge quasi improvvisamente dopo una prima parte del film anticlimatica, nella quale ad essere protagonista è la routine della quotidianità. La steadicam segue con uno sguardo distante ed oggettivo un giorno ordinario di scuola e i suoi protagonisti: da Elias, appassionato di fotografia, a John, un ragazzo che deve fare i conti con il padre alcolizzato; da Michelle, che ha problemi ad accettare se stessa e il suo corpo, sino a raccontarci le ansie e i problemi di tre giovani ragazze affette da bulimia. La scuola appare dunque come un luogo di smarrimento individuale, inerme di fronte a dinamiche che non può controllare.
Alex ed Eric vengono presentati dunque sì come degli elementi di disturbo all’interno della scuola con la loro decisione di commettere una strage violenta, ma nella fredda ciclicità della vita scolastica Van Sant sceglie di rappresentare la loro posizione in modo non molto dissimile da quella degli altri ragazzi. Invece di ridurre il senso dell’opera ad una mera opposizione dicotomica tra il bene e il male, il regista statunitense presenta invece allo spettatore i due assassini come delle chiare vittime di bullismo in cerca di una vendetta che, per quanto irrazionale e in fondo anche autodistruttiva, ha come fulcro un disagio individuale che ha delle radici più profonde di quelle che, con una messa in scena differente, sarebbero potute apparire come predominanti. Lungi dal voler giustificare i loro gesti, Van Sant presenta tuttavia la strage come la tragica conseguenza di un corso di eventi che avrebbe potuto riguardare chiunque, negli spazi in cui vengono a delinearsi tessuti sociali instabili e precari.
Elephant svolge dunque un ottimo lavoro nel sottomettere la sua idea narrativa alla sua forma, epurando dalla sua sostanza qualsiasi tipo di giudizio morale e focalizzandosi invece sull’inevitabilità dell’annichilimento in quei luoghi dove non viene concesso ai giovani di crescere e di maturare come persone. Un film intrinsecamente politico, dunque, ma che riesce paradossalmente a rimuovere questo aspetto dalla sua narrazione e dalle sue immagini, facendolo emergere invece dalla sua particolare conformazione strutturale che mette in luce una forma di degrado che non può essere combattuta se non con una riforma delle modalità stesse attraverso le quali concepiamo la formazione di un essere umano all’interno delle nostre società.
Daniele Sacchi