Cosa ha ancora da dirci, oggi, Matrix? Potenzialmente, tantissime cose. La creatura partorita da Lana e Lilly Wachowski nel 1999 ha portato sul grande schermo una discussione sul rapporto tra reale e immaginario in linea con i nostri tempi, innervandosi con le peculiarità del post-umano e ragionando sulla commistione tra umanità, apparati digitali e spazi virtuali. Matrix, allo stesso tempo, ha anche plasmato l’orizzonte di una nuova estetica cyber, sospesa tra istanze visive sia di stampo occidentale sia orientale, tra riflessioni filosofico-contemplative e dinamiche action in grado di muoversi a cavallo tra arti marziali e bullet time. Da questo punto di vista, purtroppo, Matrix Resurrections, in quanto quarto capitolo della serie e revival contemporaneo, non riesce più ad aggiungere nient’altro, sebbene il tessuto sociale dell’epoca della post-truth non sia certo manchevole di spunti per ampliare considerevolmente il discorso attorno ad esso.
Nel dettaglio, Matrix Resurrections – che questa volta vede la sola Lana al timone – si apre con una scelta coraggiosa, scegliendo la via delle stratificazioni plurime e interfacciandosi direttamente con il passato della serie. Moltiplicando i piani e i déjà vu, Matrix Resurrections veicola un preciso senso di frammentazione identitario e di disconnessione con lo spazio sociale, amplificandolo sensibilmente proprio grazie alla sua natura parcellizzata.
Thomas Anderson (Keanu Reeves) non è più Neo, bensì lo sviluppatore di videogiochi di Matrix, basati sui film precedenti. Trinity (Carrie-Anne Moss) ora è Tiffany, a sua volta priva di memoria nei confronti del suo passato. La via sembra essere quella giusta, il percorso tracciato è quello buono: il castello di carte inizialmente costruito da Lana Wachowski, però, è destinato a crollare. Infatti, nonostante Matrix Resurrections cerchi di rebootarsi come un nuovo “primo” Matrix dei 2020s, andando a rimodulare le intuizioni originarie del film del 1999, il tutto si ferma solamente alle intenzioni e non al lato pratico.
Il film è, in tal senso, più un sequel effettivo della vuotezza concettuale del disastroso Matrix Revolutions, il quale abbandonava le riflessioni portanti della serie in favore di un mero godimento ludico, e non un vero e proprio reprise del primo Matrix, fallendo nell’istituirsi come un’opera realmente al passo con le esigenze – e le insorgenze – del reale. L’intero primo atto di Matrix Resurrections, invece di apparire come quello che dovrebbe (e che vorrebbe) essere, ovverosia un gioco postmoderno ad incastri, caotico e privo di gerarchie, viene presto riportato ad un’integrità pienamente codificabile, reinserita in contesti familiari e totalmente priva di sussulti.
Le premesse costitutive, sicuramente allettanti, si sviluppano in un blockbuster prevedibile e superficiale che vive solamente dei suoi riferimenti metacinematografici. L’autoironia frivola di alcune sequenze, inoltre, non aiuta in alcun modo a ribilanciare il mood del film, a partire dal sottolineare il ruolo di Warner Bros. nell’operazione che ha portato al rilancio del franchise – una battuta pacchiana per strizzare l’occhio allo spettatore, ma presentata con la presunta sagacia di chi in realtà non ha la minima idea di quello che sta facendo – sino ad arrivare al cast di comprimari, una rosa di personaggi impalpabili come il nuovo Morpheus di Yahya Abdul-Mateen II.
Chiudendo un occhio su tutto, Matrix Resurrections è sicuramente un action sci-fi in grado di tenersi in piedi grazie alla forza del suo mythos e ad alcuni ribaltamenti prospettici interessanti, specialmente nell’esame del rapporto tra i due protagonisti della saga. Se pensiamo, però, a ciò che Matrix ha rappresentato per la settima arte, Matrix Resurrections non è nient’altro che una grande occasione mancata, un film troppo impegnato ad autocompiacersi e a giocare con se stesso per raccontarci davvero qualcosa in più su di noi e sul mondo che ci circonda.
Daniele Sacchi