Non sarebbe assolutamente corretto parlare di un film come Holy Motors (2012) cercando di incasellarlo nelle gerarchie e nelle tassonomie proprie del cinema di genere. L’opera diretta e sceneggiata da Leos Carax, infatti, si presenta come un’operazione estremamente originale nel suo tentativo di decostruire le dinamiche tradizionali proprie del medium cinematografico, cercando di mettere in questione non solo lo statuto della settima arte ma anche la natura del ruolo dell’attore.
Strutturandosi come un rompicapo irrisolvibile, Holy Motors si dà come una vera e propria rappresentazione dell’irrappresentabile, un artificio che inganna e disorienta il suo spettatore continuamente impedendogli di risolvere l’enigma dell’immaginario che si trova a comporre. Una particolarità che viene peraltro resa manifesta sin dal suo incipit, nel quale possiamo osservare il regista stesso destarsi per raggiungere una sala cinematografica attraverso una porta segreta nel suo appartamento: il cinema, dunque, come una porta verso un altro mondo, in quella dimensione in cui il reale e il fittizio si compenetrano a vicenda e si perdono l’uno dentro all’altro.
In tal senso, Holy Motors raccoglie dentro di sé tante trame e allo stesso tempo non ne presenta davvero nessuna. Denis Lavant interpreta Oscar, un uomo il cui particolare lavoro consiste nell’assumere differenti identità, aiutato dalla sua assistente Céline (Édith Scob), che lo accompagna ai suoi “appuntamenti” guidando una limousine per le strade di Parigi. “Appuntamenti” che non sono nient’altro che degli incontri, apparentemente figli di un accordo implicito tra l’uomo e quelli che potremmo azzardarci a definire come i suoi clienti, che hanno come conseguenza il mescolare operativamente i piani del reale e dell’immaginario, intessendo una narrazione apparentemente priva di finalità e tesa verso una surreale rappresentazione del corpo attoriale.
Oscar infatti altera continuamente tra un incontro e l’altro il suo viso, il suo carattere, le sue movenze e, di fatto, sembra non possedere una propria identità definita. Prima di ognuno dei suoi “appuntamenti” lo osserviamo discutere con Céline, ma anche in questi momenti è difficile stabilire se l’uomo stia o meno interpretando un altro ruolo. Durante i suoi lavori tuttavia, la finzione dello stratagemma, della maschera che Oscar indossa di volta in volta, perde il suo carattere fittizio per assumere un grado di realtà propria. Da padre di famiglia a motion capture artist, dal pittoresco Monsieur Merde (già protagonista dell’episodio girato da Carax nel film collettivo Tokyo! del 2008) a gangster cinese, Oscar convince lo spettatore della realtà delle proprie performance, ma allo stesso tempo disorienta il suo sguardo nel costante cambiamento identitario.
Nella tensione paradossale che si viene a determinare tra i domini del reale e dell’immaginario, il risultato che ne emerge è una riflessione pungente sullo statuto del cinema, e in particolar modo sulle possibilità che il film come prodotto artistico ha di imporsi sul mondo come un simulacro che cerca di andare al di là del medium stesso per, infine, aspirare ad avere una vita propria. Se questa peculiarità era già una certezza anche nella seconda metà del Novecento con il progressivo diffondersi del concetto di icona cinematografica, la consapevolezza critica che Carax dimostra ad esempio nei confronti delle nuove possibilità date dal digitale, come nel caso del segmento sulla motion capture, è impressionante, sebbene il regista non ne sia personalmente entusiasta.
Holy Motors, che vede nel cast anche Eva Mendes e Kylie Minogue, nel suo essere eclettico e stravagante è però anche un esempio perfetto di metacinema in grado di riflettere sul cinema stesso e sui processi che lo riguardano: «il cinema come un’isola dal quale è più facile guardare la vita».
Daniele Sacchi