Se al giorno d’oggi è difficile prendere seriamente i nuovi slasher che si ispirano fin troppo esplicitamente a capisaldi del genere come Non aprite quella porta (Tobe Hooper, 1974) o Halloween – La notte delle streghe (John Carpenter, 1978), parte del merito deve essere sicuramente attribuita al grande successo di Scream. L’operazione di sovvertimento dei cliché tipici di questo filone particolare del cinema dell’orrore messa in atto da Wes Craven nel suo film del 1996 è assoluta e ha come suo scopo preciso la destrutturazione del conosciuto, nonché la riduzione del già visto in puro sottotesto ironico. È interessante in tal senso osservare come l’influenza di Scream risulterà poi fondamentale nel dare il via, tra gli altri, alla serie di film comico-demenziali Scary Movie, che proseguiranno, sebbene in maniera meno brillante e più grossolana, il processo di sovvertimento dei tòpoi del cinema horror avviato dal film di Craven attraverso il rovesciamento parodistico e il citazionismo intertestuale sfrenato.
Il regista statunitense, che nel corso della sua carriera ha peraltro contribuito a realizzare alcuni tra gli slasher più iconici con film come Le colline hanno gli occhi (1977) e Nightmare – Dal profondo della notte (1984), in Scream ribalta gli stilemi tradizionali dell’horror, riuscendo nell’impresa di rivitalizzare il cinema dell’orrore grazie all’inaspettato successo della sua pellicola. A tal proposito, è interessante notare come quest’effettiva operazione di destabilizzazione del genere di riferimento di Scream venga di fatto messa in atto. In particolar modo, il film di Craven si distingue dal resto delle produzioni slasher non solo per le sue molteplici e dirette allusioni ai classici del genere, chiamati in causa sin dalla prima sequenza persino dal serial killer protagonista (l’iconico Ghostface) al telefono con una delle sue vittime, ma per il suo essere intrinsecamente consapevole di essere una raccolta frammentata di altri testi, di istanze provenienti dai film che storicamente lo hanno preceduto e che richiama direttamente.
La struttura del richiamo e della strizzata d’occhio allo spettatore attraverso l’intertestualità dello strumento della citazione, del testo dentro al testo, ha come estrema conseguenza la necessità di amplificare l’intensità del riferimento stesso. Così, Scream risulta paradossalmente più esagerato rispetto ai materiali che riprende e che vuole piegare al suo gioco ironico, e finisce infine per celare il proprio testo all’interno della propria intertestualità, fino a farlo scomparire del tutto. Scream non è solo uno slasher che prende in giro gli altri slasher, ma è allo stesso tempo sia una testimonianza efficace di come opera il genere stesso, nella ripetizione ciclica dell’assassinio brutale e apparentemente senza scopo, sia il suo completo opposto, nel suo evidente sottotesto metafilmico che mette in chiara luce la realtà fittizia dei suoi stereotipi.
In tal senso, i protagonisti del film di Craven, dall’insicura Sidney Prescott (Neve Campbell) alla giornalista Gale Weathers (Courteney Cox), dal vicesceriffo Linus (David Arquette) all’esperto di cinema horror Randy (Jamie Kennedy), possiedono un retroterra culturale simile al nostro e le linee che separano il nostro mondo dal loro sembrano infatti essere molto sottili. Sono persone che guardano i film che guardiamo noi e che conducono una vita apparentemente normale, perlomeno sino a quando l’orrore degli assassini di Ghostface non giunge a sconvolgere la cittadina di Woodsboro, in California, uno spazio che sebbene fittizio ci appare come reale in virtù della rappresentazione delle sue dinamiche sociali. Scream pertanto si allontana dall’immaginario figlio di un certo tipo di produzioni horror che vedono nell’elemento grottesco o nel sovrannaturale il proprio nucleo fondante, attuando dunque un’ulteriore operazione di sovvertimento che vuol far sì che lo spettatore si immerga in un territorio simile a quello che lo circonda, cercando pertanto di ridurre la distanza tra la realtà e tra quanto avviene sullo schermo, per poi riempirlo con le sue citazioni di un substrato strettamente cinematografico che separa nuovamente i due piani.
Nel suo determinarsi come un ponte di collegamento tra il cinema dell’orrore classico e quello moderno, Scream appare ancora oggi come un ottimo esempio di come si possa dissacrare il passato senza per questo commettere un peccato mortale: un film che, in virtù della sua brillante ironia autoreferenziale, non può assolutamente essere ignorato tra i prodotti di intrattenimento che il panorama cinematografico degli anni ’90 ci ha proposto.
Daniele Sacchi