«L’essenza dell’anima americana è dura, alienata, stoica e assassina». La citazione di D.H. Lawrence che apre Hostiles (Scott Cooper, 2017) mette immediatamente in chiaro la linea che il film perseguirà lungo il corso della sua narrazione. Hostiles è, in parte, una storia di assassinio, di espropriazione, di riduzione dell’alterità a entità che deve essere sottomessa, celata, eliminata; ma è anche, e soprattutto, una storia che si colloca storicamente quasi al termine del conflitto identitario che vuole rappresentare, nel tentativo di ricollocare lo sguardo di un’epoca per cercare di rifletterci a posteriori.
Ambientato in New Mexico nel 1892, infatti, il film presenta le tensioni territoriali che vedono come protagonisti gli statunitensi e alcune popolazioni di nativi in una fase di declino e di prossima apertura da parte del governo americano nei confronti di questi ultimi, articolandosi essenzialmente a partire da tre punti di vista distinti: quello del duro capitano Blocker, interpretato da Christian Bale, alla sua seconda collaborazione con Cooper dopo Out of the Furnace – Il fuoco della vendetta (2013); di Rosalee Quaid (Rosamund Pike), una vedova che ha perso la famiglia in seguito ad un brutale attacco da parte dei Comanche alla sua abitazione; dei nativi americani, e in particolare di Falco Giallo (Wes Studi), un capo della guerra Cheyenne prigioniero al quale viene concesso dal presidente Benjamin Harrison di riunirsi alla sua famiglia in Montana.
Il viaggio di ritorno di Falco Giallo svolge essenzialmente il ruolo di collante tra le tre storie individuali sopracitate, che presto si sovrapporranno determinando tra i loro protagonisti l’emergere di dinamiche conflittuali e in seguito pacificatrici. In tal senso, il capitano Blocker si istituisce come l’elemento centrale del film, che da figura inizialmente restia a partire per svolgere il compito affidatogli in virtù della sua profonda intolleranza nei confronti dei nativi, nel corso di Hostiles si troverà a modificare la propria disposizione mentale in una trasformazione inaspettata ma progressiva, rivelando tuttavia la natura ambigua del suo vogleriano viaggio dell’eroe nel non voler ridurre il suo arco narrativo ad una semplice redemption story.
A tal proposito, lo sviluppo della trama del film di Cooper mette in scena apertamente la propria natura di anti-western, senza cercare inutilmente di nasconderla. Nel processo di destrutturazione degli stilemi classici del genere, Hostiles ribalta la concezione tradizionale che vede l’eroe bianco combattere per respingere i selvaggi, affermando invece attraverso una brutale proposizione nichilista l’inutilità dell’assoggettamento stesso, incarnandola nelle tensioni introspettive del capitano Blocker, magnificamente rappresentate da Cooper grazie al suo frequente soffermarsi sulla dimensione del silenzio, spesso riempito dalla penetrante colonna sonora realizzata da Max Richter. Illuminante inoltre nel veicolare il messaggio del film è la propensione da parte del personaggio di Rosalee di accettare l’alterità sebbene l’etica dominante, in parallelo con la sua sconvolgente tragedia personale, vorrebbe il contrario. Etica dominante che viene brillantemente proposta in Hostiles nella sua fase calante, evidenziando ulteriormente la necessità di un abbandono di un certo tipo di pensiero in favore di una consapevolezza critica e antropologica che miri alla trasversalità culturale e all’apertura nei confronti dell’altro.
Così, Hostiles si impone nel nostro immaginario come un’opera estremamente attuale, capace di far emergere attraverso le criticità dell’epoca che rappresenta alcune delle istanze proprie della nostra contemporaneità, un’epoca di chiusura, di muri, di riaffermazione di frontiere non solo fisiche ma anche culturali, etniche, linguistiche, identitarie. Nella speranza che possa fungere da monito, il film di Cooper non solo si presenta come un’opera di grande valore cinematografico, il cui merito della buona riuscita va attribuito anche alle ottime interpretazioni del cast, al soggetto del compianto Donald Stewart e allo splendido lavoro svolto dal direttore della fotografia Masanobu Takayanagi, ma anche e soprattutto come un brillante commento sullo stato della nostra epoca.
Daniele Sacchi