Giorgio Gaber cantava «non insegnate ai bambini/non insegnate la vostra morale/è così stanca e malata/ potrebbe far male». Un monito, ma anche una speranza, proiettata sul mondo dei bambini: per far sì che diventino effettivamente il futuro, bisogna scrollargli di dosso il peso dei valori del presente, ma soprattutto ascoltarli. C’mon C’mon, film del 2021 di Mark Mills, è un diario, il viaggio di un uomo che si scopre padre, che entra in un nuovo stadio della propria vita grazie al confronto con il mondo dei bambini. Il film si colloca perfettamente nella ristretta filmografia del regista, regalando un nuovo tassello in quello studio dell’umanità, della famiglia e della crescita che, dopo Thumbsucker (2005), Beginners (2010) e Le donne della mia vita (2016), sfocia perfettamente in C’mon C’mon.
Un Joaquin Phoenix in forma smagliante è Johnny, giornalista di New York che gira gli USA intervistando bambini di ogni età, provenienza ed estrazione, interrogandoli sulla loro percezione del presente, sui loro sentimenti verso il futuro. Un giorno, per aiutare la sorella a prendersi cura del marito che soffre di disturbi psichici, si trova a passare molto tempo con il nipotino Jesse (Woody Norman), creando nel tempo un legame fortissimo che gli offre una nuova prospettiva sulla genitorialità. Nel fluire delle interviste e del diario vocale di Johnny è difficile non pensare al Pasolini di Comizi d’amore (1965), con il paragone che sembra ancora più evidente grazie all’utilizzo del bianco e nero, veicolo di un’espressività impareggiabile quando la natura del contenuto è così intima. È, infatti, incredibile la sensazione di tenerezza che il film riesce a trasmettere, pur senza filtri: C’mon C’mon ci mostra la cruda realtà imposta al piccolo Jesse, il quale deve – volente o nolente – imparare ad interiorizzare il reale, restando bambino in un mondo di adulti divorati dalle proprie vite. L’unico vero filtro, in tal senso, è proprio l’assenza del colore.
Dall’intimità e serietà dei dialoghi tra Johnny e Jesse sino alla scelta di imbastire sequenze in cui le scene non seguono necessariamente un ordine cronologico, ogni elemento del film contribuisce ad affermare ulteriormente lo stile di un regista le cui opere esprimono più che il bisogno di raccontare una storia (la propria) il bisogno di comprenderla, di imparare a guardarsi dall’esterno, nella presenza (e il contrasto) tra la vita a New York e quella a Los Angeles, nel rapporto con i genitori, nella giovinezza e nella vecchiaia, nella crescita. Ogni film ha sviluppato con toni ed equilibri completamente diversi questo insieme di elementi, eppure l’anima dell’autore è sempre incredibilmente presente ed è impossibile non notarne la continuità stilistica.
Se in Beginners si esplora il rapporto di un figlio con il padre anziano, in C’mon C’mon si esplora invece il rapporto di un uomo con il padre che è in sè. Come in Thumbsucker, in questo film si trova una difficoltà specifica, ossia la capacità di accettarsi durante il percorso di crescita, insieme al peso delle proiezioni degli adulti nei confronti dei più giovani. In tutti i film di Mike Mills, comunque, vi è sempre un tentativo di di analizzare e di cercare di capire quel contrasto generazionale che nasce nella società e che sembra sempre toccare più le nuove generazioni che le vecchie. C’mon C’mon, quindi, grazie alla performance di due interpreti straordinari, non è nient’altro che un film estremamente dolce, allegro e doloroso allo stesso tempo: un’opera autentica, nonché un segno di continuità – ma anche di maturità – da parte di un regista dalla grandissima sensibilità.
Alberto Militello