Senza pensare di esagerare, si potrebbe sostenere che il cinema, in molte delle sue manifestazioni, sia di fatto un’arte essenzialmente politica. Questo discorso vale sicuramente per la filmografia di Derek Jarman, un cineasta che, tra adattamenti shakespeariani, biografie storiche, incursioni punk e spietati sperimentalismi, ha sempre cercato di mettere in atto delle profonde commistioni tra l’immagine cinematografica e il tessuto del politico. The Last of England (1987), in tal senso, è forse l’opera di Jarman (insieme al più narrativo Edoardo II) ad esibire questa compenetrazione con un’innata ferocia provocatoria, specialmente se consideriamo il vissuto personale dell’autore.
Un anno prima della realizzazione del film, infatti, a Jarman viene diagnosticata la sieropositività all’HIV. Il regista, fortemente impegnato come attivista sul fronte della tutela dei diritti per gli omosessuali, parla pubblicamente dell’AIDS e, in particolar modo, si oppone senza peli sulla lingua all’aberrante Section 28 del Local Government Act voluto da Margaret Thatcher, un emendamento pensato per vietare, tra le altre cose, la “promozione” «dell’accettabilità dell’omosessualità come pretesa relazione familiare». La risposta cinematografica di Jarman, The Last of England appunto, non si fa attendere, trascinando con sé tutta la rabbia dell’autore verso un emendamento che non ha alcun senso di esistere all’interno di un presunto Stato democratico.
La rabbia di Jarman è concretamente percepibile in ogni singolo frame del film. D’altronde, The Last of England è il racconto della fine di un rapporto, quello tra il regista (e di conseguenza il popolo) e la sua Nazione, la messa in scena di una perdita di fiducia e di un tradimento. Esattamente come il dipinto dal quale prende il nome, L’ultimo sguardo all’Inghilterra di Ford Madox Brown, Jarman sembra voler richiamare la necessità di una fuga e di un abbandono dopo aver constatato di non essere più considerato come un essere umano dalle politiche del suo Stato.
La voce monocorde e inespressiva di Nigel Terry accompagna le suggestive immagini del film recitando i versi dei componimenti di autori come Allen Ginsberg e T.S. Eliot. Non vi è alcun bisogno di una particolare intonazione o di alcuna ricerca espressiva: ormai tutto è piatto e in rovina, i valori sono crollati, le priorità sono cambiate. Sin dai primi momenti, un richiamo al film precedente di Jarman, Caravaggio, mette in chiaro il tono cupo di The Last of England: dopo aver assunto sostanze stupefacenti, un uomo esibisce tutta la sua furia iconoclasta verso un’opera proprio di Caravaggio, per poi lasciarsi trascinare dall’eccitazione e da un piacere perverso sempre nei confronti del dipinto.
Dal Super 8 al 35mm, dal bianco e nero al colore, Jarman istituisce un’esperienza della fine dai tratti variopinti e mutevoli, un’apocalissi del reale coltivata tra paesaggi diroccati, scenari di guerra, spazzatura cittadina, sfuriate impressioniste, cortei funebri e danze macabre. L’atto conclusivo del film rientra sicuramente tra i momenti più importanti della filmografia dell’autore, con una giovane Tilda Swinton (lanciata proprio da Jarman) in abiti da sposa, in preda ad un’isteria danzante successiva all’assassinio del marito che si riveste di un sapore quasi ritualistico, ribelle e fuori controllo. La donna rifugge dalla disperazione per lasciarsi andare a emozioni che invece di caricarsi di un fatalismo autoreferenziale, nonostante il degrado del contesto che la (e che ci) circonda, si dimostrano ebbre di una rabbia sovversiva profondamente direzionata verso i promotori del disumano.
Daniele Sacchi