This Much I Know to Be True di Andrew Dominik, la recensione del documentario su Nick Cave

This Much I Know to Be True

Dopo One More Time With Feeling, This Much I Know to Be True (qui il trailer) è il secondo documentario diretto da Andrew Dominik su Nick Cave e sulla sua relazione creativa con Warren Ellis. Ancora una volta, il regista neozelandese lascia molto spazio alla performance, incentrata in particolare su brani estratti dagli album Ghosteen e Carnage, esplorando le dinamiche espressive e le singolari estrosità dei due straordinari musicisti.

Il materiale girato da Dominik coniuga sia l’elemento artistico, suggellato proprio dalle performance di Nick Cave e Warren Ellis registrate in uno stabile dismesso di Bristol, sia gli aspetti più personali che riguardano i due, questa volta però in maniera meno preponderante rispetto a One More Time With Feeling, realizzato durante il periodo della morte del figlio di Nick Cave.

«Ora mi descriverei in modo diverso rispetto a qualche anno fa. Mi identificavo come un musicista o un cantautore, ma sto cercando di allontanarmi da quelle definizioni – che si riferiscono al lavoro che faccio – e di vedermi come una persona. Come un marito, come un padre». Il cambiamento identitario di Nick Cave viene esplorato in brevi sequenze discorsive, grezze nella forma, durante le quali il musicista parla liberamente di se stesso.

Questo tipo di ruvidità formale si ripresenta regolarmente durante il documentario: vediamo microfoni entrare nelle inquadrature, gli operatori muoversi in scena, i binari del dolly in piena vista, il regista stesso comunicare con i performer che accompagnano Cave e Ellis nelle loro esibizioni. This Much I Know to Be True oscilla continuamente tra la sua impostazione tecnica volutamente non rifinita – o meglio, consapevolmente architettata per restituire questa impressione – e la precisione da parte dei due musicisti nell’esecuzione dei brani, accompagnati visivamente da costanti luci stroboscopiche.

La giustapposizione tra queste due anime fornisce al documentario una genuina autenticità. Da questo punto di vista, prima ancora di passare all’aspetto musicale dell’opera, non stupisce la scelta di dedicare l’apertura del film ad un Nick Cave “riqualificatosi” come ceramista, mentre mostra allo spettatore una serie di diciotto statue raffiguranti la storia del diavolo e richiamando chiaramente in alcune di esse il lutto familiare che lo ha colpito. La ricerca di spiritualità di Nick Cave, oltre che dalla ceramica e dalla musica, passa anche dal confronto diretto con i suoi fan nel blog The Red Hand Files, tanto che alcune delle domande più personali rivolte al cantautore australiano necessitano di giorni interi per ottenere risposta.

Diversi momenti intimi di questo tipo si intervallano all’esecuzione di brani fenomenali come Hollywood, Ghosteen Speaks o Hand of God, eseguiti alla perfezione e senza sbavature. Commovente la presenza come ospite di Marianne Faithfull, provata fisicamente dal Covid e costretta all’ossigeno ma comunque stoica nel recitare un poema di May Sarton che funge da introduzione al brano Galleon Ship. La musica, d’altronde, è la vera protagonista indiscussa di This Much I Know to Be True. Se da un lato Andrew Dominik accenna un tentativo di analisi introspettiva con le sue digressioni extramusicali, dall’altro lato preferisce assegnare alla musica stessa il compito di condurla realmente.

Daniele Sacchi