Tredici vite – Thirteen Lives di Ron Howard, la recensione

Tredici vite

Tredici vite – Thirteen Lives di Ron Howard costituisce una sorta di “ritorno” al racconto di sopravvivenza per il regista di Apollo 13. Nello specifico, Howard mette in scena una sceneggiatura di William Nicholson (già penna di film come Il gladiatore di Ridley Scott e I miserabili di Tom Hooper) basata su un fatto realmente accaduto, ossia l’incidente della grotta di Tham Luang del 2018. Il dramma alla base del film, tuttavia, è già stato oggetto di ampie analisi nel thailandese The Cave e nel folgorante The Rescue di Elizabeth Chai Vasarhelyi e Jimmy Chin, gli acclamati registi di Free Solo. In questo contesto, Tredici vite appare come un lavoro complementare che, pur adottando un proprio taglio singolare, non brilla particolarmente in nessuna delle sue componenti.

Il punto di partenza del film è la messa in scena dell’evento tragico in sé. Dopo un allenamento, una squadra di calcio giovanile – accompagnata dal loro allenatore – decide di esplorare una caverna prima di rincasare. A causa di un violento nubifragio, però, i ragazzi rimangono bloccati al suo interno, impossibilitati nell’abbandonare i cunicoli della grotta ormai inondati. Iniziano così le lunghe e difficoltose operazioni di soccorso da parte dei navy seals thailandesi, affiancati da sommozzatori esperti come Richard Stanton (Viggo Mortensen), John Volanthen (Colin Farrell) e l’anestesista Richard Harris (Joel Edgerton).

Per evidenziare le enormi difficoltà operative nella conduzione di un tentativo di salvataggio così estremo e soprattutto spalmato su più giorni, Ron Howard sceglie di omettere quasi interamente il punto di vista della squadra e di dedicare la maggior parte dello screentime all’elaborazione del piano di soccorso e alla sua messa in pratica. Pur essendo un prodotto rilasciato su piattaforma streaming (i diritti del film sono di MGM, ora di proprietà di Amazon), Tredici vite appare da questo punto di vista come uno pseudo-blockbuster maggiormente incentrato su tecnicismi e questioni di forma, tanto da apparire incredibilmente freddo ed impersonale, oltre che piegato da una durata eccessivamente dilatata.

Nonostante i timidi tentativi di costruire un legame artificioso tra lo spettatore e i suoi personaggi, specialmente attraverso la popolazione locale costantemente gravata da un orientalismo di facciata che è in realtà frutto di uno sguardo puramente occidentale, Tredici vite appare in fin dei conti come un’operazione chirurgica, un modo comunque legittimo di raccontare la tragicità dell’evento ma che allo stesso tempo comporta con la sua scelta fondante anche dei sacrifici nella sua resa complessiva, specialmente se si raffronta il film di Howard ad un lavoro simile ma molto più preciso come il già citato The Rescue. Dare la caccia a tutti i costi alla realtà non dovrebbe essere la prerogativa principale del cinema di finzione, in particolar modo quando tratta così da vicino proprio quel Reale che vorrebbe commentare e rimodulare.

Daniele Sacchi