In Europa Europa, più di 30 anni fa, Agnieszka Holland ragionava sulla formazione dell’identità europea moderna a partire dalla tragedia dell’Olocausto, raccontando la fatica di un giovane ragazzo ebreo ad adattarsi prima al contesto sovietico e, successivamente, le difficoltà nel celare le proprie origini all’interno del contesto nazista. Oggi, ne Il confine verde, la regista polacca ritorna sul tema identitario affrontando direttamente il tessuto del contemporaneo, indagando la crisi globale dei rifugiati e il fenomeno migratorio con un film molto duro sulle condizioni delle persone che fuggono dalla guerra e da situazioni insostenibili alla ricerca di un futuro migliore.
Il film, presentato in concorso all’80esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, si svolge nella cosiddetta “frontiera verde” situata tra la Bielorussia e la Polonia. Si tratta di un vasto insieme di foreste acquitrinose che separano le due Nazioni e che costituiscono uno snodo fondamentale per molti rifugiati provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa per cercare di raggiungere i territori dell’Unione Europea. Tuttavia, il sogno europeo si ferma proprio in questa temibile zona di confine dove, tra la brutalità delle guardie di confine (da ambo i lati), le provocazioni di Lukashenko verso l’Europa, le difficoltà burocratiche da parte delle organizzazioni attiviste nell’intervenire, è in corso un terribile dramma umano.
Suddiviso in diversi capitoli, Il confine verde porta lo spettatore alla conoscenza di una famiglia siriana in fuga dall’ISIS, di un soldato polacco in crisi per il suo ruolo al confine, di un gruppo di attivisti intenzionati ad aiutare il prossimo, di una civile (Julia) che sente l’impulso di fare qualcosa di più. L’attenzione è tutta incentrata sulla dimensione umana e, in particolar modo, sugli elementi che mirano alla sua rimozione. Vediamo i soldati chiedere ingenti somme di denaro per una bottiglia d’acqua, per poi rovesciarne il contenuto a terra. Vediamo alcune guardie lanciare una donna incinta di sette mesi da un furgone sul filo spinato. Vediamo un bambino annegare in una pozza fangosa. Agnieszka Holland non si risparmia nel mostrare apertamente i drammi e le tragedie vissute quotidianamente dei rifugiati e, anzi, riesce anche ad individuare un limite, non spingendosi mai veramente oltre in quello che poteva essere un affresco ancora più crudo sulla questione.
Continuamente rispediti dalla Polonia alla Bielorussia e viceversa, i rifugiati del film di Agnieszka Holland vivono sospesi nel limbo del confine verde, rischiano di morire ogni giorno, ogni ora, smarriti, senza meta, in balia degli eventi. È qui che Holland inserisce un tagliente parallelismo tra quella che era (ed è ancora) l’assurda e disumana ordinarietà delle vicende raccontate con il contesto più recente della guerra russo-ucraina, criticando apertamente le contraddizioni nell’intervento (e nei non-interventi) dell’Unione Europea sulla questione. Meno d’impatto, meno vissuti, più “narrativi” e tradizionali, invece, sono i segmenti dedicati al soldato polacco e all’attivismo di Julia, forse delle concessioni per rendere il film più fruibile per le masse e che mitigano leggermente la durezza del rappresentato, spostando l’attenzione sull’interiorità e aprendo una finestra anche sui danni collaterali causati da un sistema corrotto alla sua base. Si tratta di una scelta d’impostazione comunque lodevole, perché ci ricorda che siamo di fronte ad un problema globale che ci riguarda tutti.
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Daniele Sacchi