Assassinio a Venezia è l’ultimo film di Kenneth Branagh e il terzo episodio della sua saga cinematografica – dopo Assassinio sull’Orient Express e Assassinio sul Nilo – dedicata all’investigatore Hercule Poirot. Una formula che ormai il pubblico conosce benissimo, ma arrivati al terzo capitolo funziona ancora? La risposta è positiva. Alcuni aspetti di questo lavoro unitamente all’ambientazione veneziana – quasi concomitante alla Mostra del Cinema da poco conclusasi – offrono diversi spunti per approfondire lo spinoso dibattito aperto proprio durante la Mostra dall’attore Pierfrancesco Favino sulla rappresentazione attoriale italiana.
Nello specifico, in questa nuova avventura troviamo Poirot a Venezia intento ad evitare il lavoro. L’investigatore, infatti, è continuamente inseguito dalla sua fama ed è ancora traumatizzato dagli eventi del capitolo precedente. L’arrivo di una famosa scrittrice di gialli americana (Tina Fey) riaccenderà la sua curiosità con un caso ai limiti del paranormale. Una famosissima veggente, interpretata da Michelle Yeoh, si prepara a condurre una seduta spiritica in una vecchia villa veneziana che si crede infestata, un luogo tetro ed isolato in cui un gruppo di personaggi si trova rinchiuso nel tentativo di risolvere un mistero che, mano a mano, continuerà ad ampliarsi. Ed è proprio qui che tutti gli elementi caratteristici dei romanzi di Agatha Christie si sistemano e danno il via all’intrigo effettivo. La formula è ancora la stessa, può risultare ripetitiva (e di fatti lo è), ma le circostanze di questo nuovo caso danno una svolta dai toni horror che farà vacillare persino il freddo scetticismo e la ferrea razionalità del detective baffuto.
Tra i personaggi troviamo anche l’ex poliziotto Vitale Portfoglio, interpretato da Riccardo Scamarcio, quota italiana obbligatoria data l’ambientazione, con una presenza sullo schermo relativamente scarsa e un peso sulla trama limitato. Nonostante l’ottima interpretazione di Scamarcio, il suo ruolo sembra avvalorare il punto del produttore Andrea Iervolino in risposta alla critica di Pierfrancesco Favino riguardo all’interpretazione di Ferrari da parte di un attore non italiano, ovvero che «il cinema italiano non ha creato uno star system riconoscibile nel mondo». Per questa ragione, appunto, la presenza di Scamarcio non può che essere una presenza pesata, quasi politica, niente di più. Di certo, se avesse avuto una fama diversa, avrebbe magari ottenuto anche un ruolo più centrale e avrebbe stonato di meno in mezzo a un cast stellare come Tina Fey, lo stesso Branagh e Michelle Yeoh (che continua a cavalcare l’onda del successo ottenuto con Everything Everywhere All at Once).
Polemiche a parte, Assassinio a Venezia rende onore ai capitoli precedenti. La piega sovrannaturale di questa nuova avventura è sicuramente la carta vincente per cercare di tenere vivo un franchise in un momento della storia del cinema in cui l’idea stessa del franchise e delle saghe sembrano essere l’unico format possibile per il cinema mainstream (salvo rare eccezioni). Comunque, si tratta sicuramente di un’alternativa più che valida all’intricatissimo universo supereroistico marveliano.
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Alberto Militello