È sempre molto difficile trovare le parole giuste per scrivere di cinema, aggiungere inchiostro a immagini che già da sole parlano a noi spettatori. Il rischio, con un film così bello come Il cielo brucia, è quello di togliere la polvere dalle ali della falena rischiando di precluderle il volo. È questo il caso dell’ultimo film di Christian Petzold, secondo capitolo di una presunta trilogia sugli elementi naturali iniziata nel 2020 con Undine – Un amore per sempre. Presentato in anteprima mondiale alla 73a edizione del Festival di Berlino, dove ha vinto l’Orso d’argento, è arrivato in Italia grazie al 41° Torino Film Festival che ha deciso di proiettarlo fuori concorso dando così il via al suo passaggio in sala grazie alla distribuzione di Wanted Cinema.
Nel guardare Il cielo brucia non si è colpiti della complessità delle vicende e neppure dall’originalità della storia, tanto che può essere, molto rapidamente, riassunta così: in una torrida estate sulle coste del Mar Baltico, quattro giovani trascorrono alcune settimane insieme in una casa nel bosco a due passi dalla spiaggia. Si tratta di due amici, Leon (Thomas Schubert), scrittore in crisi durante la fase finale della stesura del suo secondo romanzo, e Felix (Langston Uibel), fotografo in cerca di ispirazione per il portfolio di ammissione alla scuola d’arte. A questi si aggiungeranno Nadja (Paula Beer), lavoratrice stagionale come gelataia nella località balneare, e Devid (Enno Trebbs), l’aitante bagnino suo amico.
Ciò che invece emerge potentemente è il tipico clima estivo fatto di giorni sospesi e programmi improvvisati, costantemente velato però dal presentimento di un pericolo nell’aria. Fin dalle prime inquadrature, al di sotto della spensieratezza estiva, si insinua infatti la notizia di alcuni incendi boschivi. I canadair sorvolano la casa, la cenere trasportata dal vento ricade a terra come neve e gli animali bruciacchiati scappano dalla loro tane. Anche il ritmo degli eventi è mimetico nei confronti dell’ambientazione, quindi lento e quasi cullante, per poi prendere un guizzo sul finale come le fiamme che divampano inaspettate.
Al centro di questo arco narrativo, Petzold sceglie di soffermarsi e prendere il punto di vista di un personaggio in particolare: Leon. Per lui, a differenza degli altri tre, il soggiorno nella casa nella foresta non è tempo di villeggiatura, bensì coincide con gli ultimi giorni disponibili per revisionare il suo romanzo prima dell’incontro con l’editore. È questa la principale giustificazione che utilizza per astrarsi completamente dal gruppo, per non vivere la vita preferendo osservarla con fare distaccato e al contempo patetico dal suo personale palcoscenico/platea: la pergola. Leon è uno scrittore in piena crisi creativa e personale, è smarrito, non sa chi è e chi può essere. Mette in scena il personaggio del romanziere ritirato nella sua autoimposta solitudine creativa, dell’intellettuale egocentrico e narcisista che contempla la vita senza realmente interessarsi alle persone. Quello di Leon è un atteggiamento ridicolo e fallimentare, come fallimentare sarà il suo romanzo intitolato Club Sandwich (che cacofonicamente rimanda proprio a Cuba Libre (1995), secondo film del regista). Thomas Schubel dà il volto e le sue espressioni imbronciate a un personaggio estremamente complesso, latentemente autobiografico che si odia e comprende al tempo stesso.
Finora potrebbe sembrare che l’unico riferimento per il personaggio di Leon e, in generale, per la storia possano essere le vicende personali del regista, ma non è così. Sono molti i riferimenti al cinema e alla letteratura emersi nelle diverse interviste rilasciate da Petzold (come nel press book ufficiale o in quelle rilasciate per Il Manifesto e ODG). Inoltre, per quanto Il cielo brucia sia stato etichettato da molti come un film ecologista, non è solamente la tematica degli incendi boschivi, vissuta comunque dal vivo per le riprese e durante una vacanza in Turchia dal regista, l’unico spunto di ispirazione per il film. L’idea nasce da un racconto breve di Anton Čechov La villa col mezzanino, ma anche dalle suggestioni tratte dai racconti raccolti in Feria d’agosto di Cesare Pavese. Stilisticamente, invece, Il cielo brucia vede la sua maternità in un intenso rewatch della filmografia di Éric Rohmer durante un periodo di isolamento del regista a causa del Coronavirus. A queste visioni si sono poi aggiunti dei rimandi all’horror americano come Quella casa nel bosco (2011) o Le colline hanno gli occhi (1977) e anche altri summer movies, come Monica e il desiderio (1953) di Ingmar Bergman. Infine, imperdibile sul finale, il rimando cinéphile a Viaggio in Italia (1954) di Rossellini nell’immagine forse più forte di tutta la pellicola.
Ed è anche in questo frullato eterogeneo di richiami che si gioca la particolarità di Il cielo brucia; nella sua inafferrabilità, nel suo essere sia un film francese estivo alla Rohmer, sia un coming-of-age post-adolescenziale sulla creatività artistica, sia un horror vagamente fiabesco. Le atmosfere e i luoghi (nei quali è stato anche girato Nosferatu di Murnau rimandano appunto al mondo del folklore tedesco sistematizzato dai Fratelli Grimm, alle fiabe della tradizione tanto care al periodo romantico. «Ein intimes Sommerdrama» (un dramma estivo intimo), come l’ha definito The Film Verdict, nel quale Leon capirà l’importanza di sprecare se stessi, di andare alla deriva e partecipare alla vita finché questa non fa terra bruciata intorno a te lasciandoti solo, spettatore delle braci fumanti.
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Matteo Bertassi