Appare un desiderio ricorrente, quantomeno nell’ultimo anno cinematografico: quello di svestirsi di una fisicità socialmente catalogata come scomoda. A solo pochi mesi dall’uscita di The Substance di Coralie Fargeat, in cui l’identità da cui liberarsi è quella della femminilità matura, ne è infatti nuovamente esempio A Different Man di Aaron Schimberg, per cui la caratteristica invalidante è quella di una, ancora meno gradita, deformità fisica.
Come per la Fargeat, la premessa di Schimberg è cruda e cinica. È un dato di fatto quale sia il valore attribuito alla bellezza dalla società di oggi, ed è un dato di fatto come una persona canonicamente attraente possa risultare avvantaggiata, in diversi ambiti, rispetto a una persona meno piacente. Ed Edward (Sebastian Stan), giovane aspirante attore e protagonista di A Different Man, non è semplicemente “brutto”, ma è afflitto da una patologia che ne rende il volto deforme. Nella lettura di Schimberg, se la poca avvenenza è comunque normalizzata, la deformità è una condizione ghettizzante. Così, nel momento in cui Edward decide di sottoporsi a invasive sperimentazioni mediche atte a curarlo in via definitiva, non è difficile empatizzare con la sua decisione, ma è quasi più probabile domandarsi perché esiti nel farlo.
Nonostante la premessa lineare, A Different Man è una pellicola dallo sviluppo inaspettatamente labirintico, una battuta nera chiaramente divisa in due atti dai codici distinti. Morte e rinascita del protagonista, premessa e punchline. Il primo atto, un grottesco excursus sul nostro rapporto con la deformità, è gestito in modo assolutamente efficace. Con spietata ironia, Schimberg inscena una panoramica relativamente realistica nella quotidianità di chi, come Edward, è identificato puramente come l’handicap di cui è portatore, un approccio standardizzato nelle fattezze, in negativo, di pura discriminazione e morboso interesse, e in “positivo”, di melliflua e altrettanto discriminatoria inclusività performativa. Sarà poi il secondo atto, la metamorfosi del protagonista, ad aprire la narrativa ai codici dell’assurdo, del contraddittorio, e dell’onirico.
Purtroppo, l’ambiziosa complessità di questa seconda parte, una favola alla Charlie Kaufman sul paradosso della performance, è una svolta che il regista fatica a gestire. Schimberg, nel tentativo di aprire la storia a una più ampia varietà concettuale, si ingarbuglia in una serie di simbolismi poco incisivi, riferimenti autoriali, e vicoli ciechi di sceneggiatura. Ne risulta inoltre largamente indebolito l’intero primo atto, strutturalmente solido, ma quasi “smentito” dall’introduzione del personaggio di Oswald (un comunque impeccabile Adam Pearson). Seppur involontariamente e in virtù di aprire una dissezione potenzialmente interessante sul concetto di identità e concezione del Sé, la caratterizzazione data al personaggio di Oswald appare proporre che il problema di Edward non fosse la soggezione a una forma capillare di discriminazione sociale, ma la mera mancanza di autoconsapevolezza e fiducia in sé stesso. La narrazione è poi ostruita da una direzione cinematografica confusa, che implementa in modo continuativo i codici dell’onirico senza mai confutare la veridicità degli eventi, risultando in una pellicola resa poco leggibile in favore di una sperimentalità eccessivamente fine a sé stessa.
In continuità con la precedente produzione A24, il coraggio del film di Schimberg è sicuramente di plauso. Ma, al contempo, la difficoltà intrinseca nel giocare con l’eccesso, ne delinea l’elemento di maggiore debolezza, sacrificandovi la trasmissione di una tesi chiara. Di fatti, la citata premessa di una pellicola ripartita in setup e punchline, inciampa nell’incapacità di giocare con una battuta finale efficace, proponendo al contempo il monito beffardo di come la bellezza sia sì vantaggiosa, ma di una convenienza inutile, e il contentino consolatorio ma un po’ ruffiano su come ciò che conta, su tutto, sia solo la capacità di accettare sé stessi.
Beatrice Gangi