Se Ridley Scott era riuscito – nel bene e nel male – a portare il franchise di Alien verso lidi più cerebrali e filosofici con Prometheus e Alien: Covenant, Fede Álvarez con Alien: Romulus decide di optare invece per un vero e proprio ritorno alle origini. Ambientato tra il primo Alien e il successivo Aliens, il film del regista del remake de La casa e dello slasher Man in the Dark è un omaggio all’intera saga che ne recupera stilemi, situazioni e punti di vista. Lo fa, però, guardando al contemporaneo, a partire da un cast di Gen Z guidato da una superba Cailee Spaeny – già Coppa Volpi lo scorso anno a Venezia con Priscilla – nei panni dell’eroina del film, Rain Carradine, sino ad arrivare all’ibridazione degli elementi classici del franchise in una commistione che guarda sia ai fan di lunga data sia ad un potenziale nuovo pubblico. Il risultato è qualcosa di già visto – un midquel che sembra in realtà più vicino al soft reboot – ma che rifugge da una semplice riproposizione nostalgica.
Nel film, la protagonista Rain è bloccata su una colonia spaziale insieme al “fratello” Andy (David Jonsson), un sintetico difettoso che è stato originariamente programmato dal padre della ragazza per agire come suo custode. La spietata organizzazione Weyland-Yutani è a capo della colonia e il sogno di Rain di lasciare il pianeta alla ricerca di un futuro migliore viene bruscamente interrotto quando, invece di ricevere un lasciapassare per andarsene (il quale le spetterebbe di diritto), viene riassegnata a lavorare in miniera. Stanchi di essere sfruttati dalla Weyland-Yutani, Rain e Andy si uniscono ad un gruppo di giovani ribelli e fuggono dal pianeta su un’astronave. A secco di carburante, i ragazzi decidono di saccheggiare la Renaissance, una stazione spaziale alla deriva (divisa in due sezioni, Romulus e Remus), ma dovranno fare i conti con delle terribili minacce aliene.
Punto fondamentale di Alien: Romulus è lo sguardo registico di Álvarez, teso tra la costruzione di un forte senso di claustrofobia e la necessità di alimentare una costante suspense narrativa, non solo nelle sequenze interne alla stazione, ma anche nell’evidenziare il pericolo esterno rappresentato dalla cintura asteroidale sulla quale la Renaissance è in procinto di schiantarsi. Vi è inoltre una particolare attenzione posta ad alcuni aspetti artigianali del medium cinematografico, come nel ricorso agli animatronics, agli stuntman in tuta, agli effetti pratici che, nello spirito, richiamano una certa estetica da b-movie. Da una prima metà introduttiva e dai ritmi dilatati, quasi a voler rievocare esplicitamente il primo Alien (anche nella messa in scena “invisibile” dello xenomorfo), Álvarez si muove verso una seconda metà più esplicita e irruenta, che richiama sia le venature action dell’Aliens di James Cameron sia alcune derive dell’immaginario fantascientifico provenienti dal tanto bistrattato Alien – La clonazione.
Tra xenomorfi, facehuggers e chestbursters (e non solo), Fede Álvarez con Alien: Romulus guida lo spettatore in un percorso di parziale rinascita del franchise – ora nelle mani di Disney – edificato sulle consapevolezze del passato. C’è spazio anche per una breve riflessione sulle suggestioni metafisiche avanzate nei capitoli più recenti di Scott, ma si tratta di una questione perlopiù ai margini. Per Álvarez è più importante l’esito, il prodotto tangibile di tali suggestioni, sublimato nell’ultimo atto del film, dove il regista uruguaiano si lascia andare alle inevitabili insorgenze dell’orrore e del grottesco. Manca qualcosa nel mezzo, specialmente nel frettoloso e poco ispirato studio dei personaggi – ad eccezione del rapporto tra Rain e Andy, uno dei punti più interessanti del film – o nel comportamento spesso troppo “permissivo” degli xenomorfi nei confronti delle loro prede, ma la direzione complessiva intrapresa per il futuro di una saga che è ormai al suo settimo capitolo è quella corretta.
Daniele Sacchi