Nel febbraio 2020 usciva nelle sale italiane Alla mia piccola Sama (qui trovate il trailer). Poche settimane dopo, il COVID-19 colpiva l’Italia e il resto del mondo, costringendoci a chiudere i cinema e limitando la possibilità di vedere questo film. Girato dalla giornalista siriana Waad al-Kateab nell’arco di cinque anni insieme al regista britannico Edward Watts, Alla mia piccola Sama è il tentativo di spiegare alla giovane figlia i sentimenti che hanno spinto i genitori a restare nella città di Aleppo durante l’assedio del 2016, nonostante il rischio che comportava per l’incolumità loro e della figlia. Fin dai primi moti antigovernativi studenteschi, la regista non lascia mai la videocamera, mostrandoci come nel giro di pochi anni la sua vita arrivi a trasformarsi radicalmente: l’incontro con il giovane medico e attivista Hamza Al-Kateab, la speranza del primo periodo, l’inasprirsi del conflitto, la nascita della figlia e infine l’assedio di Aleppo. Il film è un importantissimo documento che attraverso la storia di Sama e la sua famiglia ci mostra l’odissea tragica di una popolazione che nel giro di pochi anni ha subito delle pesantissime perdite.
Probabilmente la cosa che più colpisce del film non è soltanto la figura della piccola Sama, ma è anche l’attenzione che viene dedicata all’infanzia in guerra. Nel corso della pellicola incontriamo diversi bambini: i figli degli amici degli al-Kateab, il neonato salvato per miracolo, i bambini che giocano e soprattutto le vittime. Numerose sono le scene in cui assistiamo alla morte di un bambino vittima diretta dei bombardamenti russi. Queste immagini colpiscono e commuovono tanto la protagonista quanto il pubblico, ma se Waad è terrorizzata nel vedersi riflessa nella disperazione di una madre che ha appena perso un figlio, lo spettatore è invece colpito perché il bambino crea un contrasto tra l’idea di innocenza che rappresenta e il contesto infernale in cui è inserito, arrivando in questo modo a denunciare la natura antiumana della guerra.
Queste scene riportano alla mente un’immagine che probabilmente rappresenta l’altra faccia della medaglia della storia di Sama, la fotografia del piccolo Aylan Kurdi, bambino siriano morto annegato sulle spiagge greche, diventata il simbolo di quella migrazione disposta a rischiare tutto pur di allontanarsi dai territori devastati dai bombardamenti, alla ricerca di una speranza di vita migliore: la stessa migrazione disperata che possiamo riconoscere nel film, dove interi nuclei famigliari sono costretti con la forza ad abbandonare la propria abitazione per andare in esilio.
Un elemento che tradizionalmente si lega alla storia dell’infanzia in guerra è la presenza delle macerie: le vediamo nel finale di Germania anno zero (1948, Roberto Rossellini) o ancora in Buzkashi Boys (2012, Sam French) e ovviamente sono dominanti anche in questo film. Le macerie sono la normalità per i bambini al punto che diventano la loro unica fonte di gioco: i crateri delle bombe, riempiti d’acqua delle tubature, si trasformano in piscine, lo scheletro di un autobus bruciato diventa un parco giochi. Per i protagonisti, questi bambini e Sama rappresentano la speranza per il futuro, il motivo ultimo che li spinge a combattere e opporsi al regime, l’idea che tutto quello che stanno facendo è finalizzata a creare un futuro migliore in cui loro possano vivere. Per questo motivo non possono separarsi dalla bambina neanche quando viene fornita loro la possibilità. Alla mia piccola Sama è una toccante lettera da una madre alla figlia e contemporaneamente una testimonianza di come siano sempre i più deboli a pagare lo scotto di politiche violente e guerrafondaie.
Gianluca Tana