Dopo aver esplorato il contesto periferico romano e giovanile con La terra dell’abbastanza e la rimodulazione più universale degli stessi territori con Favolacce, i fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo tentano invece con America Latina di affrontare la crisi del soggetto contemporaneo isolandolo dall’esperienza collettiva e rimandando ad una dimensione puramente individuale. In concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, America Latina è un’opera riuscita a metà, guidata dall’ottima prova attoriale di Elio Germano ma priva di veri e propri sussulti e scosse nello svolgimento del suo intreccio, particolarità che avrebbero giovato alla resa complessiva di un film che non riesce mai a pungere mai veramente.
L’unico effettivo urto che può ambire a colpire lo spettatore è il momento in cui l’idea narrativa viene presentata nelle prime fasi del film, per poi però spegnersi man mano che la vicenda entra nel vivo. Massimo, il protagonista di America Latina, conduce una vita apparentemente normale: ha una moglie e due figlie, uno studio da dentista in cui esercita professionalmente, un amico indebitato che supporta senza fare troppe domande. Nulla sembra poter scalfire il suo equilibrio, sino a quando però trova inspiegabilmente una figura sconosciuta nella sua cantina. A partire da questo istante, che spezza l’ordinato svolgersi della sua perfetta quotidianità, l’uomo – invece di rivolgersi alle forze dell’ordine – incomincerà un’indagine personale per cercare di scoprire qualcosa in più sulla situazione inaspettata che rischia di sconvolgere la sua intera esistenza.
Purtroppo, l’interesse che potrebbe suscitare America Latina si esaurisce nel momento in cui ci rendiamo conto che il dramma individuale di Massimo è qualcosa di già visto in lungo e in largo, un pallido riflesso delle tante derive identitarie che la settima arte ha già affrontato nel corso della sua storia (specialmente negli ultimi anni). Tutto rimane in superficie, la caduta in rovina dell’uomo è solamente accennata nel suo manifestarsi, accade ma non accade allo stesso tempo. Non siamo di fronte ad un ermetismo voluto e ricercato, anzi, i pochi elementi che emergono sono fin troppo plateali (interessante, in ogni caso, l’idea di un approccio vagamente sentimentalista alla questione), mentre nei film precedenti dei fratelli D’Innocenzo si riusciva a respirare qualcosa di nuovo, pur tra le numerose influenze che costellano la proposta cinematografica dei due registi e sceneggiatori romani.
La spirale discendente di Massimo procede a rilento tra un dubbio e l’altro, tra paranoie e ossessioni persecutorie. La sensazione opprimente che percepisce, però, non lascia mai i confini dello schermo, rimane sullo sfondo ancorata al personaggio, non è in grado di stimolare, di coinvolgere, di aggredire con le sue immagini. È poco memorabile America Latina, con la sua impalpabile messa in scena della crisi, di fatto retta solamente da un grande Elio Germano, che da solo non può tuttavia salvare le sorti di un film incapace di far fruttare le sue buone intuizioni.
Daniele Sacchi