American Fiction, tratto dal romanzo Cancellazione (Erasure) di Percival Everett e opera prima del regista Cord Jefferson, è un Johnnie Walker black. Non un Johnnie Walker red, né un Johnnie Walker blue, ma proprio un Johnnie Walker black. Ora, inevitabilmente, dovrete vedere il film per capire questo product placement travestito da metafora che però racchiude non solo la questione principale della pellicola, ma anche il giudizio di valore di questa recensione.
Ma al di là di questo, American Fiction, che ha recentemente vinto l’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale – oltre ad essere stato candidato nelle categorie miglior film, miglior attore protagonista (Jeffrey Wright), miglior attore non protagonista (Sterling K. Brown) e migliore colonna sonora (Laura Karpman) – è uno di quei film che, se riassunti in una trama, non dicono proprio nulla. Bisogna vederlo per poter comprendere e, nel caso, apprezzare il delicato equilibrio che il regista cerca di tenere tematicamente tra denuncia contro le narrazioni stereotipate della comunità afroamericana e commedia, mentre formalmente tra meccanismi squisitamente metacinematografici ed equivoci da fiction. Quindi, dategli una chance, perché è possibile guardalo da singole differenti prospettive uscendone gratificati oppure da tutte apprezzandone la complessità.
La storia gravita attorno a Thelonious “Monk” Ellison (interpretato da Wright), nomen omen di un egocentrico e introverso scrittore e professore universitario afroamericano. Dopo una serie di romanzi validi, il suo ultimo manoscritto viene tuttavia rifiutato perché considerato come non abbastanza “nero”. Thelonious, in quanto intellettuale, prova una profonda avversione nei confronti dei meccanismi del mercato editoriale che, assecondando i gusti di un pubblico prevalentemente bianco, forzano autori afroamericani come lui a scrivere le solite stereotipate “storie nere”. Infatti, come gli ricorda il suo editore Arthur (John Ortiz) «i bianchi credono di volere la verità, ma non è vero. Vogliono solo sentirsi assolti». Neanche a dirlo, l’ironia della vita e l’amarezza del destino porterà, in un momento di folle ispirazione, l’integerrimo Monk proprio a scrivere un irriverente romanzo, intitolato My Pafology, che pedissequamente e al contempo parodisticamente (ma forse solo per un pubblico molto attento) segue tutti i crismi delle narrazioni che tanto detesta.
Uno scrittore ha delle responsabilità nei confronti di ciò che scrive? Intercettare e soddisfare un bisogno popolare ha comunque un valore letterario? Esiste un codice deontologico di scrittori e scrittrici che vieta di assecondare la stupidità dei lettori? Queste sono solo alcune delle domande che con grande leggerezza vengono sottese alla narrazione dal momento in cui My Pafology, inviato per scherzo con lo pseudonimo di Starr H. Leigh ad alcune case editrici, viene accettato entusiasticamente da una delle più importanti: la Thompson Watt. Da questo momento in avanti, equivoci e dilemmi la fanno da protagonisti portando quasi il film a prendere una linea comica. Ad esempio, solo per il gusto di accrescere l’effetto stereotipato e, al contempo, rifinire la supercazzola prematurata, Monk farà cambiare il titolo del romanzo in Fuck e darà a Starr H. Leigh la fama di evaso ricercato. L’equazione è chiara: più sta al gioco e più diventa ricco.
Tuttavia, la vera chiave di lettura del film si manifesta nel momento in cui il successo di Fuck è tale da incuriosire Wiley Valdespino (Adam Brody), noto regista di Hollywood specializzato in film impegnati acchiappa-Oscar. Sarà proprio grazie a lui, infatti, che Monk riuscirà nel suo intento: raccontare una storia vera di persone afroamericane senza dover scadere nei soliti stereotipi. Se la formula magica di Valdespino stava «nell’abbinare il film di genere con il pathos del mondo reale», noi siamo testimoni dell’operazione inversa messa in scena da Cord Jefferson con la complicità del suo protagonista, ovvero abbinare il mondo reale con il pathos del film di genere. Siamo stati spettatori di una divertente, ma del tutto normale, “storia nera”.
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Matteo Bertassi