Dopo lo splendido lungometraggio d’esordio L’infanzia di Ivan (1962), Andrej Tarkovskij con Andrej Rublëv (1966) cambia completamente registro, ambientazione e stile narrativo, lasciando da parte il conflitto bellico della seconda guerra mondiale e passando invece al contesto della Russia del 15esimo secolo. Il film, una raccolta di episodi in bianco e nero riguardanti la vita dell’omonimo pittore di icone (interpretato da Anatolij Solonicyn), è in realtà solo largamente ispirato alla figura di Rublëv, della cui biografia si conosce molto poco. In tal senso, l’opera assume perlopiù i tratti di una riflessione profonda sul ruolo dell’artista e sulla spiritualità umana, cercando pertanto di collocarsi al di là degli elementi che ne determinano il setting e la trama, per ambire alla trasmissione di un messaggio morale universale. Tarkovskij stesso, nell’impossibilità produttiva di offrire una ricostruzione fedele dell’epoca, decide deliberatamente di ancorarsi alla spiritualità di ciò che vuole rappresentare, dei suoi elementi contemplativi, cercando di evitare di mettere in scena una semplice riproduzione storica di fatti ed eventi. Le condizioni attraverso le quali Andrej Rublëv si trova a realizzare la sua arte vengono pertanto delineate a partire dal suo rapporto con il suo ruolo di monaco e con i suoi doveri di artista.
Per fare ciò, Tarkovskij organizza la struttura del suo film in 8 episodi, preceduti da un prologo e seguiti da un epilogo. In contrasto con il resto dell’opera, nel prologo viene mostrato un evento apparentemente disconnesso dalla vita di Rublëv e riguardante un individuo di nome Yefim (un cameo del poeta di samizdat Nikolaj Glazkov), il quale si schianta al suolo dopo aver cercato di prendere il volo con una macchina aeromobile simile ad una mongolfiera. Tarkovskij elimina consapevolmente l’antefatto che permetterebbe allo spettatore di comprendere le motivazioni dietro al gesto di Yefim, riducendo la sua esperienza ad un episodio apparentemente senza significato e che poi non verrà più ripreso. In realtà, il prologo funge da vero e proprio catalizzatore del senso dell’intera opera, mostrando la poetica cinematografica dell’autore in piena azione: il cinema, come egli stesso scrive in Scolpire il tempo, deve in primo luogo «descrivere l’avvenimento, e non il proprio atteggiamento nei confronti di esso», atteggiamento che deve invece scaturire dalla visione complessiva del film. Andrej Rublëv dunque sottopone ai propri spettatori la vita del pittore, ma quest’ultima non deve essere assimilata come una mera esposizione di fatti (scritti da Tarkovskij stesso, peraltro), bensì deve essere compresa nella sua tensione verso uno schema comprensivo superiore che vede nella storia di Rublëv la rappresentazione di un pensiero, di uno stato della mente, che, una volta sopito, necessita di essere riattivato per consentire alle sue verità di emergere pienamente.
In particolare, dopo aver lasciato il monastero della Trinità di San Sergio, il monaco entra a stretto contatto con la dura realtà della sua epoca, giungendo a più riprese a interrogarsi sui principi fondamentali della vita, dell’arte, della religione. Fondamentale in tal senso è il suo dialogo con Teofane il Greco, che ci permette di comprendere come, in contrasto con il cinismo del maestro, Rublëv veda nelle sofferenze dell’umanità una via di fuga tangibile nella fede. Così, Tarkovskij inserisce all’interno del suo film una rievocazione della crocifissione di Gesù Cristo su un campo innevato, con la voce narrante di Rublëv che riduce le cause del tragico evento non alla stupidità del popolo, come sostiene invece Teofane, bensì ai meccanismi di potere che operano come forze soggiogatrici delle masse.
«I popoli hanno bisogno che qualcuno ricordi loro che sono popoli», e l’occupazione della città di Vladimir da parte dei Tartari, supportati dal fratello del Granduca, si erge a ulteriore illustrazione di questo paradigma. Durante l’invasione, che Tarkovskij mette in scena con una crudeltà tale che portò il film ad essere pesantemente censurato dal regime sovietico sino al 1971, Andrej Rublëv entra a stretto contatto con la dimensione della sofferenza, una condizione che nella sua vita precedente, nell’atmosfera amichevole e serena del monastero, non avrebbe mai potuto concepire. Con la perdita della fede da parte del popolo, viene meno anche la benevolenza del suo spirito: l’unica risposta al dolore sembra essere il silenzio e la cessazione della sua attività come pittore. Ed è proprio grazie al silenzio, che Rublëv riesce a tornare progressivamente ad amare il mondo per quello che è, recuperando la sua idea di amore e di fraternità, accettando quindi il tormento come parte integrante dell’umanità stessa. Se inizialmente il suo conflitto interiore non sembrava potersi risolvere, com’era già apparente nel suo rifiuto di dipingere il Giudizio Universale per il potenziale terrore che avrebbe provocato nei suoi osservatori, è con la comprensione del dolore degli altri invece che si può andare oltre, al di là dei propri limiti mortali, come ci dimostra lo splendido episodio denominato La campana.
L’arte in tal senso sembra operare come un medium che raccoglie queste istanze e che in ultima analisi le rende tangibili, visibili, materiali. La creazione artistica pertanto sembra configurarsi come quell’elemento della produzione umana che ci ricongiunge con l’umanità stessa, o più precisamente con il senso profondo che soggiace nell’essere umano, istituendosi come una vera e propria forza connettiva tra l’uomo e la sua essenza. Il passaggio dal bianco e nero al colore nell’esibire le icone realizzate da Andrej Rublëv amplifica ulteriormente il senso del messaggio tarkovskijano, che, nell’enfatizzare la serenità del loro apparire, nel connubio tra arte e vita, vede nella centralità di una relazione armoniosa tra gli uomini lo scopo ultimo dell’umanità.
Daniele Sacchi