Sette anni dopo Un padre, una figlia, Cristian Mungiu ritorna in Transilvania con Animali selvatici per esplorare le criticità e le contraddizioni della società rumena. L’acclamato regista – vincitore della Palma d’oro nel 2007 con 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni – continua la riflessione sociale tipica della sua proposta cinematografica operando tra i margini del realismo e del simbolismo, sottoponendo il proprio Paese ad una vera e propria risonanza magnetica, letterale e figurata. Il richiamo è esplicito a partire dal titolo originale del film, R.M.N., il quale si riferisce direttamente sia alla tecnica diagnostica di imaging medico sia alla stessa Romania.
Nella multiculturalità di una Nazione che vive di diversità e di pluralità linguistiche aleggia tuttavia inesorabile lo spettro della xenofobia, del pregiudizio, del rifiuto dell’alterità. Si tratta di un paradosso costitutivo inspiegabile, nel quale l’Altro cessa di essere inteso come un soggetto, come una persona, e viene ridotto a mero capro espiatorio. Il punto di partenza è l’arrivo in una piccola cittadina della Transilvania di alcuni immigrati dello Sri Lanka, assunti dal panificio locale. Csilla (Judith State), la responsabile dell’attività, viene contestata pubblicamente per la sua scelta, oltre a dover fare i conti con il ritorno in città del suo ex amante Matthias (Marin Grigore).
In una babele linguistica in cui si alternano e si sovrappongono senza soluzione di continuità il rumeno, l’ungherese, il tedesco, il francese e l’inglese, ad emergere come terribilmente contradditorio è proprio il rifiuto dell’accettazione di tale pluralità. In Animali selvatici, Mungiu scava tra il detto e il non detto per tratteggiare un quadro amaro di una collettività che vede il proprio equilibrio minacciato, nonché la propria apparente stabilità. Diventa importante per il regista rumeno sottolineare il passaggio dai silenzi della quotidianità – che vorrebbero sottintendere una precisa intimità familiare, celandone in realtà i tormenti interiori ed esteriori – al caos e al rumore della collettività, in una dicotomia strutturale che si erge come chiave di lettura fondamentale.
Così, Animali selvatici mette in risalto la giustapposizione tra il singolo e ciò che lo circonda, denunciando una chiara incapacità nel confrontarsi con la realtà. È un disagio collettivo ma che ha inevitabilmente una radice individuale, cristallizzata a partire dal singolo. Pensiamo ad esempio all’adultero Matthias e alle sue evidenti difficoltà nell’interpretare il Reale, nel comprendere i problemi del figlio, nell’accettare la malattia paterna (e qui viene citato apertamente il tema della risonanza), nell’incapacità di interiorizzare il rifiuto da parte di Csilla.
Ma il film di Cristian Mungiu vive anche di traumi, di rimozioni, di fuori campo – come ciò che Rudi, il figlio di Matthias, vede nel bosco – che però ritornano e si concretizzano attraverso la vividezza dell’immagine cinematografica, aprendo a nuovi orizzonti interpretativi, specialmente nell’enigmatica sequenza conclusiva. Tra urti lancinanti e improvvisi, come una molotov che graffia l’immagine (richiamando in seguito anche un immaginario preciso, quello del KKK), e momenti dove invece a prevalere è la staticità, la fissità, la parola e il discorso (che non è mai tale, perché unidirezionale), Animali selvatici insorge contro un certo pensiero ostruzionista e xenofobo, lasciando al peso dell’immagine il compito di testimoniare contro la sua barbarie fondante.
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Daniele Sacchi