Una delle sequenze più famose e maggiormente iconiche di Arancia meccanica di Stanley Kubrick mostra il protagonista del film, Alex DeLarge (Malcolm McDowell), legato dinanzi ad uno schermo, i bulbi oculari dilatati da un dispositivo medico, sottoposto alla sperimentale cura Ludovico. Alex, nel corso di queste sedute mediche, viene obbligato a visionare immagini e filmati di ultraviolenza: il trattamento, infatti, mira a suscitare una forte repulsione nei confronti della brutalità degli atti mostrati per impedire al soggetto criminale di tornare a delinquere e per, dunque, riformarlo e reinserirlo nel tessuto sociale, sostituendosi alle usuali pratiche di detenzione carceraria.
Già a partire da questa consapevolezza, si rende evidente come l’intelaiatura che regola strutturalmente l’opera di Kubrick (e il romanzo di Anthony Burgess da cui il film trae ispirazione) possieda alla base del suo discorso una matrice politica e morale connaturata ed ineliminabile. La cura Ludovico, da questo punto di vista, è una sorta di nuovo panopticon benthamiano, una forma di regolamentazione e di determinazione del potere che non agisce ponendosi al di sopra del soggetto ma che, diversamente, opera attraverso di esso, lo controlla e lo asservisce, limitandone il libero arbitrio e condizionandone il percorso di vita, sia implicitamente sia esplicitamente.
La messa in scena delle dinamiche del potere e dei meccanismi che le regolano non è una novità nel cinema di Stanley Kubrick, il quale ne Il dottor Stranamore mette ben in evidenza le fallacie umane che trasformano progressivamente la difficile amministrazione del potere politico in uno smisurato esercizio di volontà di potenza. Similmente, in Arancia meccanica, la cura Ludovico, da progetto di riformazione teso al raggiungimento di un presunto benessere sociale, diventa a sua volta uno stratagemma di propagazione di crisi e di violenza, nel quale il soggetto si trova ad essere limitato, incapace di agire, alla mercé del volere degli altri.
Se da un lato nella prima metà di Arancia meccanica le azioni criminali di Alex DeLarge e del suo gruppo di Drughi – corrotti nello spirito e nel fisico, guidati da una pleonexia irrefrenabile stimolata (anche) dall’abuso del latte più – necessitino di un intervento diretto da parte dello Stato, dall’altro lato la via percorsa nella seconda metà del film riporta il protagonista, per quanto caricaturalmente dipinto come spregevole e, forse, irrecuperabile, ad una dimensione umana, perlomeno dinanzi allo sguardo spettatoriale. Da criminale, e dunque da entità che opera al di fuori dei confini stabiliti dalla legge, da figura alla quale spetta un comprensibile quanto necessario biasimo di natura morale nei riguardi della caoticità maligna che rappresenta, Alex diventa vittima sacrificale di una serie di processi che si muovono al di là di ogni categorizzazione o tipizzazione dicotomica tra bene/male, giusto/sbagliato, legittimo/illegittimo.
E in un ulteriore ribaltamento e sovvertimento, nella fase conclusiva di Arancia meccanica, Alex rifugge dalla presunta catarsi che credeva di aver raggiunto e si riappropria di se stesso, trovandosi però a dover fare i conti con una nuova strategia di riproduzione parcellizzata del potere, questa volta dal sapore meno distopico rispetto alla cura Ludovico e invece più attuale, legata irriducibilmente ai meccanismi propagandistici massmediali, ben evidenti e allo stesso tempo altrettanto ben celati, delocalizzati ma “tra noi”, in un nuovo tentativo di replicare i processi apparentemente falliti in precedenza.
A partire da un’estetizzazione della violenza che gioca con la sua autoreferenzialità per sublimare un preciso immaginario, quello di una generazione di Drughi vuota, alla deriva e consapevole di provare un piacere estetico ed estatico nell’assoggettare l’alterità e nel ridurla al suo volere, Kubrick intesse un profondo dialogo che abbraccia in toto la modernità. In Arancia meccanica, di fatto, l’uomo moderno come singolo individuo appare come un ingranaggio e parte infinitesimale di un tutto capace di sottomettere le proprie leggi all’azione semi-celata ma onnipervasiva del potere.
Daniele Sacchi