Arca russa (2002) è un’impresa cinematografica eccezionale. Girato con un unico piano sequenza di circa un’ora e 30 minuti – operazione realizzata con successo anche dal recente Victoria (2015, Sebastian Schipper) – riuscito al quarto take, il film di Aleksandr Sokurov è uno splendido quanto originale tentativo di riflettere criticamente sulla storia della Russia, «un immenso teatro» come viene definita nel corso della pellicola. Grazie ad un lavoro tecnico e coreografico straordinario, frutto del lavoro di una crew composta da migliaia di persone e da centinaia di comparse, il Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo – che oggi fa parte del complesso del Museo dell’Ermitage – assume in Arca russa una precisa veste simbolica di testimonianza storica attraverso una densa ed eclettica commistione tra ciò che rappresenta per la Russia e il linguaggio proprio della settima arte. In tal senso, Sokurov porta ai limiti estremi il discorso sulla forma cinematografica, sebbene egli stesso ne minimizzi la portata rivoluzionaria nel documentario In One Breath (2003, Knut Elstermann), sostenendo di come ciò che effettivamente conti nella produzione di un film non sia il modo in cui viene prodotto ma la qualità artistica complessiva dell’opera, stimabile solamente a risultato finale ottenuto.
Tuttavia è innegabile come Arca russa contenga, indipendentemente dalla volontà del suo autore, una profonda indagine sul significato stesso del fare cinema, approfondita a più riprese con la frequente rottura della quarta parete e nel progressivo rivelare la natura incredibilmente soggettiva della struttura artificiale che funge da fondamento dell’esperienza visiva propria del film di Sokurov. Nello specifico, in Arca russa la macchina da presa diventa viva, da oggetto tradizionalmente celato a soggetto reale e irrimediabilmente presente, identificandosi con lo sguardo spettatoriale. Nulla di nuovo, si potrebbe dire, ma il film, realizzato interamente con una videocamera digitale montata su una steadicam e operata dal direttore della fotografia Tilman Büttner, cerca di caricare di significati nuovi ed imprevisti il proprio apparato formale, mettendo in scena a tal proposito la visita di un fantasma al Palazzo d’Inverno: un viaggiatore nel tempo, che non vediamo mai dal momento che si dà come un tutt’uno con la macchina da presa, ma che in ogni caso riesce a comunicare – attraverso la voce dello stesso Sokurov – con l’unico personaggio che può vederlo, l’Europeo (Sergej Dontsov).
L’Europeo è un personaggio basato sulla figura reale del Marchese di Custine, un viaggiatore e scrittore francese del 19esimo secolo che in seguito al suo viaggio in Russia pubblicò un reportage denso di riflessioni non solo sulla sua esperienza ma anche sul sistema economico, politico e culturale del Paese, dal titolo La Russie en 1839. Similmente, l’Europeo accompagna come un novello Virgilio il viaggiatore nel tempo – e insieme ad esso, lo spettatore – per le sale dell’Ermitage, mostrando le epoche passate della Russia prendere forma attraverso personaggi in costume, musica, balli e opere d’arte in un’indagine sul passato che trascende ogni forma di temporalità e di spazialità per darsi come testimonianza tangibile, per quanto multiforme e senza una traccia specifica, della storia.
In questa disconnessione destrutturante, il museo assume i tratti di un nonluogo dove la dispersione e la mancanza di referenti ben precisi riafferma paradossalmente la forza simbolica del passato, risemantizzandone l’incontro confusionario in una messa in scena irriducibile, dal carattere aperto e non totalizzante. La macchina da presa in Arca russa è invisibile e si confonde tra i personaggi del film, la sua azione e il suo movimento diventano impercettibili, e così come l’occhio dello spettatore osserva ma non viene osservata. L’unidirezionalità dello sguardo cinematografico diventa un’occasione per entrare a stretto contatto con le trame del passato – anche successive ai viaggi del Marchese, come testimoniano i riferimenti a Stalin e alla Seconda guerra mondiale – all’interno di un orizzonte di confini interpretativi che prevedono, come d’altronde immaginabile dal luogo scelto per le riprese, anche un incontro concreto e quasi materiale con l’arte. Aleksandr Sokurov riflette dunque in Arca russa sul conflitto identitario del suo Paese nell’esame delle strette relazioni tra la Russia e l’Europa (ma non solo, pensiamo ad esempio alla rappresentazione attuata nel film della cerimonia di scuse dello scià di Persia nei confronti di Nicola I), celebrandone allo stesso tempo l’incredibile eredità culturale.
Daniele Sacchi