Un film di Wes Anderson si riconosce subito. Può variare il genere, l’ambientazione, il mezzo, ma lo stile resta inconfondibile, la sua estetica è iconica ed è ciò che lo ha reso uno dei registi indipendenti più noti e apprezzati di sempre. In un sistema mediale che predilige le immagini ai contenuti, la bellezza alla profondità, lo stile di Wes Anderson attecchisce benissimo, fino a diventare un trend su TikTok. Il quesito che permea la visione del suo ultimo film, Asteoid City, si impone quindi come un dubbio lecito: cosa è rimasto della sua verve autoriale? Può un regista affermato ridursi unicamente al suo stile estetico? La domanda forse è esagerata, ma Asteroid City si presenta come un film in stile Wes Anderson al cento per cento, mancando però di quel guizzo, di quella unicità che distingue tutti gli altri suoi film.
Ma andiamo per gradi. Asteroid City è un racconto metacinematografico e teatrale allo stesso tempo. Un narratore (Bryan Cranston) ci parla di un noto scrittore teatrale (Edward Norton) il quale scrive un’opera, Asteroid City, che a detta dell’autore, pur parlando di luoghi e fatti assolutamente inventati, dice molto sulla natura dell’uomo. Il film che segue non è nient’altro che la messa in scena di quest’opera, una vera e propria mise en abyme che di tanto in tanto viene interrotta dalla storia dell’autore e dal suo rapporto con l’attore protagonista (interpretato da Jason Schwartzman). In tutto ciò, Asteroid City appare come una città quasi disabitata nel bel mezzo del deserto americano, nata attorno al cratere di un asteroide caduto anni addietro, la cui caduta viene celebrata ogni anno. Diventerà il luogo di incontro tra un fotografo e i suoi figli, appena diventati orfani di madre, e di una famosa attrice (interpretata da Scarlett Johannson).
Tutte le interazioni portate in scena sono caratterizzate dalla fredda innocenza tipica del cinema di Anderson. Ci sono i soliti colori, le solite luci, la solita simmetria wesandersoniana, ma alla base manca qualcosa. Tutto è cristallizzato e costruito per il cinefilo, come se il regista si volesse cullare nell’efficacia del suo stile. Già nelle scene iniziali, infatti, il film ammicca molto a Dogville di Lars Von Trier, nella “costruzione” del set e nella distruzione della realtà filmica. Non manca nemmeno un rimando alla contemporaneità, in un certo gusto nella struttura del set e nell’ambientazione anni ’50 e nella rappresentazione degli USA della Guerra Fredda. Molti sono gli elementi di questo film che possono essere apprezzabili, riconoscibili, sicuri in un certo senso, ma ci si ritrova sempre allo stesso punto.
La caratteristica dell’autore americano è sempre stata l’evasione, il tentativo di regalare allo spettatore un viaggio in un universo più o meno fiabesco, ma sempre governato da regole che coincidevano con quelle del mondo reale quel tanto che basta da raggiungere l’animo di chi guarda, architettando il tutto con uno stile unico ed originale. Questa volta, però, è come se Wes Anderson non fosse riuscito a fare quel salto, a scappare da una concezione dell’immaginario cinematografico che ormai è stata ben sondata, lasciando da parte la sua anima indipendente per abbracciare in toto la sua deriva pop. L’assunzione iniziale è forse fuorviante, in Asteroid City si parla di sofferenza, di crescita personale, di rapporto con il diverso e di accettazione, tutto confezionato in maniera diligente ed esteticamente impeccabile, un tributo alla sala e al mezzo cinematografico. L’unico problema è che tutto questo non basta, o almeno, non basta più per un regista che ci ha regalato opere di ben altro calibro, un autore che un tempo sarebbe stato in grado di raccontare meglio – in un modo sempre buffo e coloratissimo, ma più convincente – la tristezza, il dolore, la crescita.
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Alberto Militello