Babygirl di Halina Reijn, la recensione del film

Babygirl

Halina Reijn ha colto tutti di sorpresa due anni fa con la sua opera seconda, Bodies Bodies Bodies, dimostrando di essere in grado di ragionare sulla superficialità e sulla vuotezza della generazione social ibridando con gusto la commedia e l’horror in una brillante satira del contemporaneo. La regista olandese – che aveva debuttato nel 2019 al Festival di Locarno con Instinct – approda ora nel concorso principale dell’81esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia con Babygirl, spezzando ogni possibile entusiasmo sulle potenzialità del suo lavoro.

Il film erotico prodotto da A24 innanzitutto vede Nicole Kidman nei panni della protagonista, Romy, amministratrice delegata di successo di un’azienda pioniera nel campo della robotica. Nella sua vita privata, però, qualcosa non funziona come dovrebbe. L’appagamento sessuale con il marito (interpretato da Antonio Banderas) latita nonostante la coppia sia particolarmente attiva sessualmente. Presto, nel corso del film, Romy svilupperà una relazione sadomasochistica con un giovane tirocinante dell’azienda, Samuel, interpretato da Harris Dickinson (lo abbiamo già visto in Triangle of Sadness e in The Iron Claw), rischiando di mettere a repentaglio sia la sua carriera sia la stabilità della sua famiglia.

Dimenticate il vigore di un film come Secretary o gli urti laceranti de La pianista. Babygirl è un tentativo debole di portare in scena un certo tipo di dinamiche relative al potere e al controllo che sono già state esaminate in lungo e in largo, senza aggiungere molto di più all’argomento in sé. Il film di Halina Reijn si muove sui binari di un erotismo spurio e poco accattivante, senza sottigliezze o sfumature, intrecciandosi spesso (e non sempre consapevolmente) con i territori della commedia.

Da un lato, l’esplorazione sessuale perseguita da Romy appare come il perseguimento di un atto liberatorio per le sue pulsioni desideranti. In tutto questo, però, si parla di “consenso”, di consapevolezza, di limiti, di safe words, in un contesto che prende le mosse dall’adulterio, quasi a voler permeare di moralità l’immorale. Dall’altro lato, invece, vi è un percorso opposto di mortificazione del desiderio sessuale rivestito da sfumature parodistiche («non mi hai mai fatto avere un orgasmo!», lamenta Romy al povero marito tradito). L’intento complessivo del film è poco chiaro, e si spera che la finalità ultima non fosse quella di avanzare una sorta di pseudo-manifesto femminista.

Non è comunque tutto da buttare in Babygirl. Le prove attoriali sono tutte sul pezzo, riconfermando (qualora ce ne fosse ancora bisogno) la versatilità della Kidman e la buona promessa di Dickinson. La messa in scena del primo incontro tra Romy e Samuel, pur con quel fastidioso strato di humor che l’accompagna, è ben costruita e ricca di tensione drammatica. Reijn conosce la materia cinematografica e sa come manipolarla a suo vantaggio. Manca, in questo caso, un solido appoggio per permettere al suo (evidente) talento di sbocciare una volta per tutte.

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Daniele Sacchi