Bestiari, erbari, lapidari, la recensione del film

Bestiari, erbari, lapidari

Terminata l’81esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia si può ormai affermare che due sono state le proiezioni (escluse le serie televisive) che hanno maggiormente spaventato per la loro durata sia il pubblico che gli accreditati: The Brutalist (215′) di Brady Corbet, vincitore del Leone d’argento per la regia, e Bestiari, erbari, lapidari (206′) di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti. Due opere mastodontiche, la prima di finzione e la seconda documentaristica, che scelgono deliberatamente di superare la soglia delle tre ore e di mettere alla prova lo spettatore immergendolo in una narrazione più ampia e distesa.

D’Anolfi e Parenti tornano a Venezia nella sezione Fuori Concorso dopo essere stati in gara prima con Spira Mirabilis nel 2016 e poi con Guerra e Pace nel 2020, documentario che vinse il premio per il Miglior film nella categoria Orizzonti. Tornano, quindi, forti della posizione acquisita nel panorama del documentario contemporaneo (non solo nazionale, ma anche internazionale) testimoniata, ad esempio, dalla retrospettiva in omaggio al loro cinema che il Festival dei Popoli ha organizzato questa estate al Piazzale degli Uffizi di Firenze.

Bestiari, erbari, lapidari è, usando le parole dell’autore e dell’autrice, un «documentario enciclopedia» diviso in tre atti (I atto 73’ + II atto 73’ + III atto 62’) ognuno dei quali utilizza un dispositivo di messa in scena differente. In bestiari si assiste a un documentario di found-footage nel quale il materiale d’archivio è usato per raccontare il rapporto tra uomo, animali e cinema; erbari è invece un documentario d’osservazione ambientato all’interno dell’Orto botanico di Padova; infine lapidari è un documentario «industriale ed emotivo sulla trasformazione della pietra in memoria collettiva», ovvero un’operazione poetica di montaggio parallelo tra il processo di realizzazione del cemento e alcune immagini d’archivio dell’Olocausto.

Se a una prima impressione i tre atti possono sembrare entità a se stanti tenute insieme solamente da un’idea creativa, in realtà, vi sono alcune caratteristiche formali che li uniscono in un unico discorso sul rapporto che l’umanità intrattiene con l’altro da sé. Si è immediatamente immersi nel ritmo narrativo a cui D’Anolfi e Parenti ci hanno abituati: un montaggio lento e contemplativo che privilegia la dimensione sonora delle inquadrature a sfavore degli interventi in voice over. Questi, quando emergono dall’impasto sonoro, o sono voci di commento delle persone inquadrate oppure svolgono un ruolo fondante per la narrazione. È il caso del lungo intervento in erbari affidato a Stefano Mancuso, botanico e saggista italiano, che apre ricordandoci come il 97,3% della massa vivente totale sulla Terra è rappresentata dal regno vegetale e solo lo 0,01% è costituito dalla specie homo sapiens sapiens. Inoltre, D’Anolfi e Parenti scelgono quasi sempre di mostrare il lavoro di restauro e conservazione delle immagini, sia fotografiche sia in pellicola, prima di riprodurre sullo schermo il frammento stesso. Uno stratagemma che toglie allo spettatore il rischio di essere intrattenuto, immergendolo invece nel flusso della conservazione/restauro per farlo sentire parte di una memoria che ora, anche grazie a lui o lei, potrà perdurare nel tempo.

È impossibile pensare di ridurre in un testo scritto tutte le immagini, i temi e i cortocircuiti messi in scena in più di tre ore di documentario. Bestiari, erbari, lapidari è sicuramente un’esperienza da vivere e rivivere per poter entrare sempre più nell’ordito delle immagini. È però chiaro come alcune tematiche, anche trasversali all’opera di D’Anolfi e Parenti, emergano con un certa chiarezza. Prima fra tutte l’idea che il cinema sia un potentissimo mezzo di conoscenza e indagine della realtà. In bestiari tutto ciò è calato nel regno animale. I primi esperimenti fotografici che hanno poi portato all’invenzione del cinematografo, come il fucile fotografico di Marey o la serie di scatti del cavallo al galoppo con fantino di Muybridge (Sallie Gardner at a Gallop o The Horse in Motion), hanno avuto animali come soggetti. Intrappolati prima dalla pellicola e poi fisicamente dietro le sbarre degli zoo europei ai loro albori, gli animali sono sempre stati fonte di curiosità per l’uomo. Si è sempre cercato di vederli sempre più da vicino, finché ora, grazie alle immagini trasmesse nei monitor, possiamo osservarne addirittura le interiora pulsanti durante gli interventi di chirurgia veterinaria.

Infine scorrono i titoli di coda e ad alternarsi sullo schermo sono immagini di fossili, pietre che hanno intrappolato frammenti di regno animale o frammenti di regno vegetale. E forse è questo ciò che D’Anolfi e Parenti hanno fatto con Bestiari, erbari, lapidari, hanno creato un fossile cinematografico nel quale hanno voluto intrappolare foglie, storie, animali, persone, in una parola: memoria.

Matteo Bertassi