I replicanti, l’alterità, il miracolo della vita, il confronto con la morte: Blade Runner 2049 (2017) riparte dalle stesse tematiche del Blade Runner (1982) di Ridley Scott senza tuttavia apparire come una superflua operazione di rivisitazione del materiale di riferimento. Anzi, il seguito diretto da Denis Villeneuve e sceneggiato da Hampton Fancher e Michael Green si inserisce nella continuità propria del suo predecessore proponendo nuove soluzioni diegetiche nel tentativo di disarticolare il già conosciuto.
Per raccontare la storia personale dell’agente K, Villeneuve traccia per lo spettatore nuovi territori narrativi e visivi da esplorare, pur mantenendo una rispettosa fedeltà iconologica con la pellicola di Scott. Lo stesso K, interpretato da un perfetto e imperscrutabile Ryan Gosling, infatti non è che un nuovo modello di replicante, una copia sintetica dell’uomo, incaricato di rintracciare e di eliminare le vecchie unità ancora attive dell’ormai defunta Tyrell Corporation. Villeneuve richiama così un immaginario già consolidato, quello proprio del blade runner, ossia del cacciatore di replicanti ribelli, decostruendolo a partire dalle sue fondamenta, collocando in tal difficile posizione un replicante stesso che presto inizierà a dubitare del suo ruolo nel mondo: un mondo distopico che, grazie anche al grande contributo del direttore della fotografia Roger Deakins, si presenta come un luogo tremendamente arduo in cui vivere, segnato da un collasso ecologico che ha costretto chi poteva permetterselo ad emigrare in colonie extraterrestri.
Se lo scenario losangelino del film ricorda molto quello proposto da Scott, ossia un luogo i cui abitanti possono proseguire la loro grigia esistenza tra automobili volanti, pioggia incessante, grandi loghi e pubblicità olografiche, ciò che si trova al di fuori delle mura cittadine è invece estremamente logoro, come l’immensa discarica alle sue porte o come il deserto del Nevada, la cui saturazione dei colori riesce a instillare nello spettatore un ossimorico gelo. In linea con la desolazione del suo paesaggio, Blade Runner 2049 è un’opera dal ritmo molto lento e introspettivo che si concede poche (sebbene memorabili) sequenze d’azione, impreziosite peraltro da un ottimo comparto sonoro e dalla musica di Hans Zimmer e Benjamin Wallfisch. Seguendo tale impronta stilistica, il film riesce inoltre ad approfondire a dovere i suoi personaggi, articolandone dettagliatamente le gesta ed esplorandone i rapporti, a partire dal veterano Harrison Ford sino agli ottimi comprimari: dall’ologramma Joi (Ana de Armas) all’inquietante Niander Wallace (Jared Leto), dalla ferma e risoluta Joshi (Robin Wright) alla fredda replicante Luv (Sylvia Hoeks).
Blade Runner 2049 appare inoltre come un interessante approfondimento sul tema della memoria collettiva. Dopo gli eventi del 2022, raccontati nel cortometraggio anime Blade Runner Black Out 2022 di Shinichirō Watanabe, il mondo ha perso parte della propria identità storica. Gli archivi elettronici, contenenti dati di ogni genere sui replicanti (ma anche sull’umanità stessa) sono andati perduti. Il passato diventa pertanto qualcosa che deve essere ricostruito oppure dimenticato e sostituito. Abbiamo diversi esempi nell’opera di individui che agiscono nell’una o nell’altra maniera, come ad esempio possiamo riscontrare nella struttura produttiva, organizzativa e di controllo della corporation guidata da Niander Wallace o nel gruppo rivoluzionario di replicanti guidato da Freysa (Hiam Abbass).
Allo stesso tempo, Blade Runner 2049 è anche un’interrogazione sulle dinamiche proprie della memoria individuale. Cosa definisce la mia esistenza? I ricordi possono bastare nel determinare la mia identità o è necessario qualcos’altro? Per l’intelligenza artificiale Joi l’enigma dell’esistenza sembra essere risolto dal momento in cui la sua libertà si trova ad essere legata ad un supporto meno vincolante rispetto a quello altamente restrittivo presente nell’appartamento di K. Joi tuttavia non sembra possedere ricordi antecedenti alla sua configurazione da parte di K, non è nient’altro che un insieme di stringhe di codice riempite dalle necessità e dalla volontà dell’agente stesso. Basta questo a determinarla come un’entità esistente e pensante, reale in quanto presente? Per l’agente K, il disagio metafisico è invece molto più presente e condiziona ogni sua azione. K è ciò che crede di ricordare del suo passato: ma quanto del suo passato è reale e quanto invece è artificio? E se l’artificio fosse a sua volta reale?
È indubbio come Denis Villeneuve sia riuscito con la sua opera a realizzare il sequel perfetto. Ciò che poteva apparire come una mera operazione commerciale di ripresa di un successo antico per riproporlo in veste contemporanea è invece risultato in un vero e proprio arricchimento di un universo cinematografico preesistente che, allo stesso tempo, si dimostra capace di produrre idee e concetti nuovi. Blade Runner 2049 in tal senso appare come una delle espressioni più alte del cinema stesso: un insieme ben congegnato di trama, tecnica, studio dell’immagine e filosofia che lo annoverano tra i film più belli di questo decennio.
Daniele Sacchi