Se volessimo stilare una classifica degli horror più importanti della storia del cinema, sarebbe difficile non citare tra le prime posizioni Carnival of Souls. Il primo e purtroppo unico lungometraggio diretto dal visionario Herk Harvey nel 1962 ha anticipato e influenzato massicciamente il lavoro di numerosi registi, dal George A. Romero de La notte dei morti viventi (1968) sino ad arrivare al David Lynch di Eraserhead (1977), proponendosi come un’opera completamente disinteressata dalle logiche del profitto. Carnival of Souls è infatti un film low budget guidato sin dal suo concepimento da un puro intento artistico, slegato da ogni pretesa di sfruttamento visivo eccessivo della violenza, della sessualità o dello shock value. Harvey costruisce un horror inusuale per l’epoca, un viaggio etereo incerto, misterioso, lugubre e dall’atmosfera vagamente lovecraftiana.
La pellicola si apre con un incidente stradale nel quale un gruppo di ragazze finisce fuori strada, in un fiume. La polizia cerca invano di recuperare il veicolo e le ragazze vengono date per morte, ma la conducente, Mary Henry (Candace Hilligoss), riemerge indenne dalle acque, improvvisamente. La ragazza non ricorda come sia effettivamente sopravvissuta all’incidente e, dopo essersi trasferita nello Utah, cerca di riprendere a vivere come se nulla fosse accaduto. Tuttavia, l’evento sembra averla segnata indelebilmente: Mary non è più la ragazza di un tempo, è assente, alienata, persa in un mondo tutto suo. A questo stato mentale corrispondono delle terribili visioni di un individuo inquietante e spettrale (“The Man” nei crediti, “L’uomo”, interpretato dallo stesso regista), un’entità sovrannaturale che non le dà pace e che spesso si manifesta accompagnata da altri spiriti dalle intenzioni misteriose.
Carnival of Souls si presenta così come una storia che si pone a cavallo tra il reale e il fantastico, senza mai pendere interamente da una parte piuttosto che dall’altra. A fianco all’atmosfera quasi onirica che permea buona parte del film, corroborata dall’accompagnamento sonoro di organo composto da Gene Moore e da un certo ricorso alla teatralità da parte delle entità sovrannaturali e – in modo differente e meno istrionico – anche da parte della protagonista, Herk Harvey attribuisce ai jumpscares il compito di creare una vera sensazione di sussulto nello spettatore, riuscendo nell’impresa proprio grazie all’attenta cura fornita a tutto ciò che sta attorno ai meccanismi psicologici della paura. Gli elementi centrali del film possono essere rilevati nel tema della morte, del tormento dell’anima, del demoniaco, ma Harvey non è intenzionato ad affrontare un’analisi effettiva ed elaborata di queste suggestioni.
Il regista statunitense sembra maggiormente interessato a rappresentare da un punto di vista quasi espressionistico gli aspetti più oscuri e celati dell’essere umano, assegnando in tal senso un valore estetico rilevante a paesaggi lugubri, degradati, spogli, capaci di far emergere nello spettatore le stesse sensazioni di spaesamento esistenziale provate dalla protagonista del film. Carnival of Souls è un’opera capace di rendere intrigante l’opprimente, l’inaspettato, il disgustoso. L’uomo tetro che perseguita Mary – personaggio al quale Lynch si è ispirato per il suo “uomo misterioso” in Strade perdute (1997) – diventa lo specchio della sua anima, la materia spettrale della sua esistenza, una visione e una certezza ontologica tanto ripugnante quanto affascinante. Herk Harvey reinterpreta così il significato del cinema horror e fa scuola, in un’operazione atipica ed estremamente innovativa per la sua epoca.
Daniele Sacchi